Month: settembre 2010

Il poliziesco italiano

tPGBXNascita di un genere
 Il poliziesco autarchico – o “poliziottesco”, come venne con una certa sufficienza ribattezzato – conosce la sua stagione aurea negli anni ’70, sulla scia del successo ottenuto da “La polizia ringrazia” (1972): la ratio di questo film – il solo firmato dal glorioso Steno col suo vero nome, Stefano Vanzina – consiste nell’ibridare il cinema “politico” indigeno (quello, per capirci, del Damiani di “Confessione di un commissario di polizia al Procuratore della Repubblica”, 1971) con talune pellicole d’azione provenienti da oltreoceano, quali “Il braccio violento della legge” (1971) di William Friedkin o “Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo” (1971) di Don Siegel.
Proprio questi due titoli – assieme al più tardo “Il giustiziere della notte” (1974) di Michael Winner – saranno le più evidenti fonti d’ispirazione del filone: pur se esso affonda le radici in epoche più remote, avendo alle spalle opere di vaglia come “La banda Casaroli” (1962) di Florestano Vancini, “Omicidio per appuntamento” (1967) e “Gangster ’70” (1968) di Mino Guerrini, “Banditi a Milano” (1968) di Carlo Lizzani e “Un detective” (1969) di Romolo Guerrieri (Romolo Girolami).
Considerati dalla critica del tempo rozzi e reazionari, i lavori appartenenti a detto genere sono in realtà incentrati sul ritmo e basati sulle scene d’azione: i contenuti passano in secondo piano ed il messaggio “d’ordine” pare strettamente funzionale a creare motivazioni che consentano ai personaggi di agire. Il via alla produzione in serie nel settore lo danno gli abnormi incassi ottenuti nel ’75 da “Roma violenta” di Franco Martinelli (Marino Girolami): di qui in avanti, gli schermi nostrani sono invasi da un profluvio di prodotti similari, più o meno ispirati. 15369

Se “Roma a mano armata” (1976) e “Napoli violenta” (1976) di Umberto Lenzi e “Italia a mano armata” (1976) di Marino Girolami si limitano a seguire in maniera pedissequa le orme del capostipite (riproponendone l’interprete principale, Maurizio Merli), risultati migliori vengono talvolta ottenuti dagli stessi cineasti in ambiti meno stereotipati: Lenzi, ad esempio, con “Milano rovente” (1973) fornisce un potente spaccato di vita malavitosa, dai suggestivi toni noir, mentre con “Milano odia la polizia non può sparare” (1974) e “L’uomo della strada fa giustizia” (1975) licenzia delle violentissime e assai personali riletture dei citati modelli statunitensi, con una amarezza che non è d’accatto e una competenza tecnica che ha poco da invidiare a quella dei colleghi americani.

Gli autori

Analogo discorso si può fare per Enzo G. Castellari (Enzo Girolami), che sciorina in “La polizia incrimina ldownloada legge assolve” (1973) e “Il cittadino si ribella” (1974) una rara maestria nel girare complesse sequenze spettacolari, per poi sgranare nel superlativo “Il grande racket” (1976) un cupo rosario di morte e di sangue, all’insegna d’un pessimismo di fondo. Se il precursore Romolo Guerrieri continua a proporsi con onesto mestiere – da “La polizia è al servizio del cittadino?” (1973) a “Un uomo, una città” (1974), da “Liberi armati pericolosi” (1976) a “Sono stato un agente Cia” (1978) – e Sergio Martino è nulla più che corretto in “Milano trema la polizia vuole giustizia” (1973) e “La polizia accusa: il servizio segreto uccide” (1975), Stelvio Massi finisce per specializzarsi nel ramo: ma, della sua lunga filmografia, le cose più rilevanti risultano essere l’esordio nel genere ed il commiato dal medesimo, rispettivamente col robusto “Squadra volante” (1973) e il crepuscolare “Poliziotto, solitudine e rabbia” (1980).
Del peculiare contributo di Fernando di Leo ci piace ricordare brevemente le riuscite incursioni di registi che al genere si sono dedicati in maniera episodica, citando il bellissimo – e, purtroppo, inedito in Italia – “Cani arrabbiati” (1974) di Mario Bava, storia di un sequestro di persona dagli esiti imprevedibili; il curioso “Revolver” (1972) di Sergio Sollima, che mescola noir e road movie con sorniona bravura; il magnifico “Tony Arzenta” (1973) di Duccio Tessari, versione apocrifa e survoltata del classico “Frank Costello faccia d’angelo” (1967) di Jean-Pierre Melville (di cui riprende pure il protagonista, Alain Delon), che rilegge il polar d’oltralpe in un’ottica iperviolenta e malinconica. Resta da spendere, su questo fenomeno così importante per la cinematografia di casa nostra (ed apprezzato anche fuori dai confini patrii: in più d’una occasione, ad esempio, Quentin Tarpoliziotto-solitudine-e-rabbia-683485lantino ha indicato in codeste pellicole la scaturigine della propria ispirazione), qualche parola a riguardo della terminale inevitabile decadenza. Come già per il western, le estreme propaggini del poliziesco assumono i colori della farsa: se già ne “Il giustiziere sfida la città” (1975) di Umberto Lenzi compariva la figura d’un difensore della legge pittoresco e ciarliero (ben resa da uno scaltrito Tomas Milian), essa viene in seguito messa a punto per infine assumere i tratti del maresciallo Nico Giraldi, detto Monnezza. All’insegna del turpiloquio e di sempre più sbracati duetti comici con l’attore Franco Lechner (in arte Bombolo), Milian spopolerà in un interminabile ciclo – da “Squadra antifurto” (1976) a “Delitto al Blue gay” (1984) – diretto da Bruno Corbucci: tra lazzi e frizzi, si consumano gli ultimi fuochi di un genere tanto originale quanto misconosciuto, che attende ancora una rivalutazione da parte della critica ufficiale.

Etica pubblica e presunzione d’innocenza.

E finalmente abbiamo visto e ascoltato Gianfranco Fini a reti unificate, o quasi.
Un discorso dal quale non c’era d’aspettarsi tanto, sostanzialmente un invito a deporre l’ascia di guerra dato che una caduta anticipata del governo non sembra convenire a nessuno. Non conviene a Fini, ancora impreparato vista la recente costituzione del suo movimento ad una lunga e cattiva campagna elettorale. Non conviene a Berlusconi che probabilmente rischierebbe di non avere la maggioranza al senato e soprattutto – ed è quel che più conta – non converrebbe all’Italia in un momento di crisi economica e di venti speculativi.
L’invito di Fini è stato abbastanza chiaro: non essendo sicuro della parola del suo “cognato” consiglia a Berlusconi d’imbavagliare la “stampa a lui vicina” per proseguire da separati in casa nel sostegno al governo.
La vicenda della casa di Montecarlo non ci ha particolarmente impressionato, nè ha destato un grande interesse. Nemmeno le voci sulla “parentopoli” in Rai che sarebbe riconducibile al presidente della Camera. Niente di nuovo sotto il sole; d’altronde – si sente spesso dire in giro – all’interno del cono d’ombra berlusconiano tutto può essere giustificato. Ogni cosa appare caratterizzata dal tono minore se paragonata al male assoluto.

Su un punto in particolare vorremmo però che si concentrasse l’attenzione di chi legge.
Fini ha dichiarato di “essere praticamente l’unico leader politico a non essere stato non solo sfiorato da un avviso di garanzia ma nemmeno dal sospetto di essere incorso in reati penalmente rilevanti”.
Questo concetto è ovviamente funzionale alla sua autodifesa ma se portato a regola generale può risultare estremamente pericoloso.

La nostra Costituzione, e questo Fini non può non saperlo, stabilisce il principio sacrosanto della presunzione d’innocenza in base al quale nessuno può essere considerato colpevole fino al terzo grado di giudizio. Questo principio ha una rilevanza non solo giuridica ma anche morale. Un principio che è risalente nel tempo, dato che veniva fatto proprio dagli illuministi e da Cesare Beccaria nel suo celebre Dei delitti e delle pene. In un’epoca in cui le condizioni carcerarie erano tremende e la tortura veniva utilizzata per ritrarre dalla bocca dell’inquisito la verità Beccaria ribaltava l’idea in base alla quale l’imputato era già un mezzo colpevole sostenendo la presunzione d’innocenza.
Inoltre i parlamentari, come rappresentanti del popolo, godono di alcune guarentigie – fino a 15 anni fa la vecchia “autorizzazione a procedere” – che non debbono essere intese come violazioni del principio in base al quale tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge ma come un elemento cardine di una democrazia degna di questo nome. Quelle che con un certo disprezzo vengono chiamate “immunità per i parlamentari” servono a porre un confine evidente tra potere legislativo e giudiziario e proteggere il primo da eventuali “tentazioni ritorsive” del secondo. Si tratta, of course, di pesi e contrappesi dei quali parlava addirittura Montesquieu riferendosi all’architettura istituzionale inglese.

Chiarito questo punto, è evidente che l’excusatio non petita di Fini sia espressione di una cultura non propriamente liberale. Ma è anche, lo ripetiamo, un ragionamento molto pericoloso se elevato a sistema. Perchè viola contemporaneamente il principio della presunzione d’innocenza, bypassa la necessità che i parlamentari abbiano uno scudo giudiziario (che non significa impunità), e soprattutto la necessità che non sia la magistratura a attribuire patenti necessarie ad accedere o restare in Parlamento. L’elemento per valutare l’onestà di uomo o, nella fattispecie, di un parlamentare non dev’essere il fatto che abbia ricevuto un avviso di garanzia. Non spetta al potere giudiziario compiere una valutazione di chi abbia i requisiti per sedere in Parlamento. Ma ai cittadini.
Se spettasse alla magistratura avremmo  un esercizio della sovranità da parte del popolo limitata dagli efori.  Di conseguenza una democrazia “a sovranità limitata”. Il che non sarebbe molto rassicurante… Anche perchè, in Italia, non è che si abbondi in fatto di democrazia. C’è disordine, anarchia, questo sì. Cose che in realtà hanno poco a che vedere con la democrazia e più con la prepotenza e la prevaricazione.

Se Obama diventa il gestore del declino americano…

Lo ammettiamo, abbiamo fatto il tifo per lui. Soprattutto in contrapposizione all’antipatica Hillary Clinton. Vedevamo con simpatia questo outsider che con la sua oratoria riusciva a ridestare un barlume di entusiasmo e speranza negli americani e non solo. Ci attanagliava il sospetto che Mc Cain potesse essere un candidato affidabile ed un buon presidente. Ma il fatto che alla fine ce l’abbia fatta non ci è per nulla dispiaciuto. Parliamo di Barack Hussein Obama, il 44esimo Presidente degli Stati Uniti. Laureato ad Harward a pieni voti, avvocato, primo presidente di colore della storia americana. Caratterizzato da una storia personale capace di destare una certa curiosità, sembra incarnare l’ideale tipico della società americana piena di possibilità. Barack Obama è uno che sa parlare, ha un’oratoria che ha portato alcuni a scomodare paragoni lusinghieri. Addirittura è stato privilegiato del Nobel della Pace ancor prima d’iniziare, iniziativa per la verità alquanto grottesca abilmente gestita dall’ imbarazzato Barack che ha sostanzialmente dichiarato ciò che un pò tutti hanno pensato. Ovvero: “state calmi, non ho ancora fatto niente”.
Non vorremmo essere al suo posto in questo momento.
Di certo la poltrona di Presidente degli Usa è quella più scomoda, tenendo conto dei problemi che sono sul terreno. Una crisi economica terrificante dalla quale gli Stati Uniti stentano a riprendersi nonostante i massicci investimenti pubblici. Un debito che comincia ad essere troppo elevato, frutto delle dissennate campagne militari di questi anni. Senza dimenticare il semi-fallimento delle maggiori case automobilistiche. O il dossier nucleare che vede l’Iran sempre più sordo ai richiami statunitensi (a proposito, fa tenerezza il lasciapassare di Obama al nucleare civile dopo aver dichiarato sic et simpliciter per quasi 2 anni che l’opzione nucleare iraniana era impraticabile in toto). Senza dimenticare la Cina che comincia a farsi sempre più sotto come nuovo competitor su scala mondiale. O l’Afghanistan, dove la Nato sta perdendo la guerra dopo anni di sonni tranquilli nei quali i talebani hanno potuto riorganizzarsi. Insomma, se a Obama sono venuti i capelli bianchi non è soltanto per una questione fisiologica.
In tutto questo baillamme, comincia a bussare un sospetto anche presso alcuni analisti non proprio sprovveduti: ovvero che il declino americano possa essere cominciato per davvero. Niente di incredibile, sia chiaro. La ruota, nella storia, ha girato per tutti. Dall’Impero Romano, fino al sistema eurocentrico, o all’Impero Mongolo… c’è stato spazio per tutti. Una crescita, uno zenit, ed un conseguente declino. Ed è probabile che lo stesso avvenga, presto o tardi, anche per gli Usa. Certo, per chi come noi è nato e cresciuto nel mito (per alcuni dominio) statunitense si tratta di un piccolo/grande shock. Ma niente di insuperabile. Resta indubbiamente da valutare se questo declino sarà veloce o molto lungo. Le conseguenze per la civiltà occidentale potrebbero essere diverse nell’uno o nell’altro caso. L’Europa non è assolutamente pronta a prendere l’impegnativo testimone dell’occidente: troppo pavida, timorosa, chiusa in se stessa per poter tenere alla difesa di quelli che poi sono i propri principi (portati avanti in questi anni di supplenza americana in modo un pò rozzo, spesso con la forza delle armi).
Alcuni analisti cinesi parlano di sorpasso sugli Usa nel 2025/2030.
Anche alcuni americani, a dire il vero.
In realtà i cinesi sono interessati a tenere il mostro americano ancora in piedi fino a quando si sentiranno abbastanza forti per prenderne il posto. Comprano i titoli di stato americani e questo è già un buon punto di partenza. Sono stati graziosamente ammessi nel 2001 nel WTO ed ora, ben guardandosi dal rivalutare la propria moneta, stanno invadendo i mercati con i loro prodotti.
Lo sfruttamento schiavistico della manodopera in Cina, d’altronde, fa comodo anche a molti investitori occidentali. Il destino della Cina è stato deciso proprio con l’entrata nel WTO. E’ stata una vittoria dell’economia e della finanza sulla politica. Cosa non troppo rassicurante, visti i risultati di questi ultimi anni. Non è detto che quando l’elemento decisionale venga fatto proprio dall’economia i risultati siano migliori di quando invece è la politica a comandare.
Se negli anni 80 la politica decise di fare esplodere l’Unione Sovietica con la corsa agli armamenti, l’economia (e la sua logica ancella di questi ultimi 20 anni, ovvero la politica) ha deciso di utilizzare l’enorme mercato cinese e le sue grandi potenzialità in fatto di produzione e sfruttamento della manodopera. In pratica in Cina hanno avuto il tempo di fare ciò che a Gorbaciov non è stato concesso.
La Cina ha tassi di crescita, anche in piena crisi, del 10% annui.
Non è ovviamente ipotizzabile che questo trend si protragga all’infinito, ma le distanze tra i due colossi si stanno comunque accorciando. Certo, le campagne cinesi sono ancora molto arretrate. Ci sono grandi problemi ambientali dovuti alla velocità della crescita, tensioni etniche che vengono represse con la forza militare del regime. Ma i cinesi sono un popolo disciplinato, dalla civiltà millenaria, nonchè imprenditori abilissimi. Non stiamo certamente apprezzando un sistema come quello cinese, stiamo semplicemente mettendo in evidenza quelli che sono gli elementi di forza.
L’Occidente ha pensato di far un solo boccone dei poveri cinesi e rischia invece di essere fagocitato. Molto comico. O molto drammatico.
Il presidente Obama, in tutto questo, non sembra avere le idee particolarmente chiare. Certo, ha approvato una riforma sanitaria che però non ha fatto altro che aumentare la spesa pubblica con il conseguente aumento della pressione fiscale. Forse sarebbe stato meglio un rinvio, in attesa di tempi migliori per finanziare le proprie imprese. Ha inoltre approvato un pacchetto di regole finanziarie che dovrebbero evitare default finanziari come quelli ai quali abbiamo assistito. Ha optato per un saggio salvataggio delle banche e delle principali attività finanziarie del Paese, si è impegnato per non abbandonare il settore auto al suo destino. Ha dato impulso ad un nuovo programma nucleare civile, ben sapendo che un grande Paese industrializzato non va da nessuna parte con le sole rinnovabili. Ora si sta incaponendo per permettere ai gay di entrare nell’esercito. Tutte cose importanti, per carità. Ma l’impressione che molti terribili problemi siano ancora in campo è forte. E non si vedono, dopo quasi due anni di mandato, le possibili soluzioni.
In primo luogo c’è il dossier Afgano.
Gli americani e i loro alleati stanno perdendo la guerra. E’ probabile che Obama sia arrivato tardi (due anni fa la situazione era già abbastanza compromessa) però anche l’estromissione del gen. Mc Crhystall -che aveva imputato al Presidente di non capire nulla della situazione bellica- è un fatto inquietante.
Il regalo del Nobel della Pace, poi, è stato davvero ridicolo considerando che poco dopo Obama è stato costretto -giustamente- a mandare 30mila uomini, non certo per dare le caramelle ai bambini. In Afghanistan si sta perdendo perchè si sono spesi male anni importanti, nei quali la situazione era relativamente tranquilla. Si è data la possibilità ai talebani di riorganizzarsi e non si sono conquistati i cuori e le menti introducendo il cambiamento. Gli afgani hanno visto solo truppe di occupazione in questi nove anni, e nulla o quasi è cambiato per loro. Questa è una ragione che, ancora prima di quelle prettamente militari, pesa sull’andamento di questa guerra sul quale c’è uno spaventoso silenzio mediatico.
L’inquietante impotenza americana nei confronti dell’Iran è poi un altro aspetto particolare di tutta la vicenda. La politica della “mano tesa” non ha dato alcun risultato. L’Iran è un regime teocratico estremamente ostile nei confronti degli Usa e dell’Occidente. Il problema non era scegliere tra Bush o Obama: chi ha pensato che fosse una questione di persone, di destra e sinistra ha sbagliato di grosso.
Inizialmente Obama aveva escluso totalmente la possibilità che gli iraniani arrivassero al nucleare. E’ di questi giorni la drammaticamente comica concessione, da parte statunitense, del nucleare civile. Un cedimento progressivo su tutta la linea, che apre in realtà le porte alle pretese iraniane dato che chi possiede il nucleare civile ha tutte le conoscenze tecniche e materiali per arrivare a quello bellico. Se l’Iran avrà la bomba le conseguenze potranno essere difficilmente prevedibili.
Lasciano infine esterrefatti alcune prese di posizione del presidente americano ad esempio sulla possibile costruzione di una moschea a Ground Zero, scelta ideologica che ha lasciato perplessi anche alcuni ferventi sostenitori di Obama.
Ma di questo scriveremo nella prossima puntata.

Perchè Mario Amato?

Mario Amato, Sostituto Procuratore della Repubblica di Roma, viene assassinato con un colpo di pistola la mattina del 23 giugno 1980. 42 anni, due figli, è il magistrato che a Roma si occupa di tutti i processi legati al terrorismo nero. La storia di un uomo lasciato solo di fronte alla violenza del terrorismo di estrema destra.

La carriera di Amato: dalla microcriminalità di Rovereto al terrorismo neofascista della Capitale
Amato, dopo aver passato qualche anno alla Procura di Rovereto, nel luglio del ‘77 arriva in quella di Roma, e pochi mesi dopo, a dicembre, gli viene affidato il primo incarico legato al terrorismo. Mentre a Roma le indagini si concentrano sulle Brigate Rosse e sulla sinistra, Amato è il solo magistrato a doversi occupare dei gruppi neofascisti, diventandone ben presto un facile bersaglio. Di questo pericolo è fin troppo consapevole: pochi giorni prima della sua morte, infatti, racconterà ai colleghi del Consiglio Superiore della magistratura lo stillicidio quotidiano di rapine, violenze e omicidi che animavano quei mesi e quegli anni. Ma soprattutto chiederà loro aiuto perché si trova a dover indagare su un caso così complesso completamente da solo.

Durante l’audizione al CSM del 13 giugno 1980, dirà: «Vi sono un sacco di ragazzi o di ragazzini che sono come i miei e i vostri figli, o come i figli di persone assolutamente perbene, che vengono armati o comunque istigati ad armarsi e che poi troviamo che ammazzano. Li troviamo con armi, con silenziatori, o colti nel momento in cui stanno ammazzando. Si tratta di un fenomeno grave che non può essere trascurato e che non si risolve prendendo i ragazzini e mettendoli in galera. O meglio, mettiamoli pure in galera, ma teniamo presente il gravissimo danno sociale di questi giovani che vengono travolti da vicende di questo tipo. Si tratta di un danno che noi pagheremo. Ciò che dico ovviamente vale sia per la sinistra che per la destra. Per la sinistra in numero spropositato, per la destra in numero ridotto perché le proporzioni politiche sono diverse. Ho fatto una relazione in cui indicavo la gravità del fenomeno, l’opportunità di seguirlo e di estendere le indagini, perché non ci interessa solamente arrestare la persona che ha commesso un reato: se tale persona fa parte di un’organizzazione, mi interessa catturarla ma poi risalire anche agli altri».

Nel dicembre del ‘77, gli viene quindi affidato il primo “caso”, ovvero il fascicolo del “processo della Balduina”. Il 1 ottobre del ’77, infatti, nel quartiere romano della Balduina, la sede missina di Via delle Medaglie d’Oro, considerata tra i più pericolosi covi neri della città, viene chiusa dalla polizia su disposizione del Ministro dell’Interno, in base alla nuova legge sull’ordine pubblico. Gli arresti sono 17, i latitanti 10: molti di questi sono figli di avvocati e professionisti. Si tratta di un processo per ricostituzione del Partito Fascista, per il quale la direttissima era obbligatoria. Amato si deve occupare quindi, per la prima volta, di fatti di tale natura. A complicare gli avvenimenti, inoltre, è l’omicidio di Walter Rossi, simpatizzante di Lotta Continua, ucciso il 30 settembre da Alessandro Alibrandi, membro dei NAR e figlio di Antonio Alibrandi, giudice istruttore di Roma e collega di Mario Amato.
All’audizione di fronte al CSM, Amato dirà che si trovava in udienza «con una questione delicatissima, con elementi di estrema fragilità nei confronti dei vari imputati dei quali si trattava di dimostrare, oltre all’attività criminosa, anche il vincolo associativo. E il tutto con un preavviso di soli tre giorni. In pratica voleva dire: buttarmi in pasto ai leoni!».

Dopo le prime udienze di trattazione di quel procedimento, prende atto dell’insufficienza di indizi nei confronti di molti degli imputati e chiede la revoca degli ordini di cattura.

La difficile indagine sulle cellule eversive
Il 13 ottobre del ’77, il Procuratore Capo di Roma, Giovanni de Matteo, al Tg1 dichiara: «Io penso di concentrare tutti gli altri episodi presso due sostituti ed eventualmente anche presso un terzo sostituito. Ognuno segue un certo filone, un certo settore e tutti quanti poi confluiranno». Ma in realtà i Sostituti Procuratori promessi per affiancare Amato non arriveranno mai. Nei tre anni successivi, infatti, il magistrato rimane l’unico a Roma a indagare sul terrorismo nero. Così come era rimasto solo anche il suo “predecessore” Vittorio Occorsio, ucciso da Ordine Nuovo nel ‘76 .

Proprio nel ’77, l’estremismo di destra è in grande fermento. Sul campo si muovono gruppi diversi, espressione di anime diverse di un unico mondo: ci sono i gruppi storici della destra radicale come Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, sciolti per decreto del Viminale; c’è Terza Posizione, attiva soprattutto nelle scuole, e ci sono i nuovo gruppi armati come le C.O.P, Comunità Organiche di Popolo, formate da giovanissimi neofascisti che gravitano intorno al FUAN, l’organizzazione degli universitari missini.

Nel ’77 nascono i NAR: a Roma la violenza si intensifica
Nell’autunno poi nascono i NAR, Nuclei Armati Rivoluzionari, sotto la cui sigla agiranno gruppi diversi e indipendenti tra loro. Il più determinato è quello di Valerio Fioravanti. Suo fratello Cristiano, durante il processo di Bologna, il 31 ottobre ’89 dichiara: «A me personalmente dava fastidio che non potevamo fare gli scontri con la polizia dalla parte nostra, oppure che la magistratura ci copriva. Era risaputo che i giovani di destra erano figli di papà che rispettavano la legge, che non andavano contro…io volevo uscire da quegli schemi».

La peculiarità dei movimenti di destra romani è lo “spontaneismo” costituito dal mito dell’azione esemplare fine a se stessa, dal rifiuto della struttura gerarchica e militare e dal culto dell’amicizia e del gruppo. I NAR diventeranno secondi, per numero di vittime, soltanto alle BR, ma a differenza di queste scriveranno pochissimo. Viene infatti ritrovato un solo volantino, intitolato: NAR, chiarimento, in cui viene spiegato cosa sia lo spontaneismo armato e che si conclude con l’intimidazione: Tremate, l’ora è vicina! Sarà la resa dei conti. NAR.

7 gennaio’78, Roma: vengono uccisi due giovanissimi militanti del MSI, Franco Bigonzetti, 19 anni, e Francesco Ciavatta, 18 anni, da una raffica di mitra davanti alla sezione di Acca Larentia. Negli scontri che seguono tra attivisti e forze dell’ordine, un carabiniere uccide un altro missino, Stefano Recchioni di 19 anni. In seguito Francesca Mambro (ex-NAR) ha dichiarato che “Acca Larentia segnò un punto di non ritorno”. La violenza dei gruppi di destra, infatti, da quel momento aumentò ulteriormente.

L’idea di Amato: tra i tanti gruppi di estrema destra c’è un filo conduttore
Gli attentati diventano pressoché quotidiani e non sempre attribuibili a un gruppo specifico, anche perché spesso vengono rivendicati da sigle diverse. In questo contesto Amato ha la grande intuizione di mettere insieme fatti apparentemente slegati tra loro e di cercare un filo conduttore.

Si convince che tutti questi gruppi obbediscano ad un’unica regia, e questa convinzione la ribadisce anche davanti al CSM, il 15 marzo dell’80: «Qui a Roma si cercano i famosi NAR, che hanno rivendicato numerosi omicidi e attentati, e che ora sono divenuti ancora più virulenti. Recentemente sono state arrestate persone trovate in possesso di pistole e bombe a mano. Esaminando il fascicolo rilevai, utilizzando i miei appunti personali, ma anche un po’ di schedario, che le bombe a mano trovate a dette persone avevano lo stesso numero di altre bombe a mano usate da altri, come quelle usate nell’attentato dei NAR alla sede del PCI, in cui rimasero ferite 22 persone. È evidente che non può essere una coincidenza. Resta il fatto che tale elemento l’ho evidenziato io in base a una serie di appunti che mi sono andato formando nel corso della mia attività, mentre nel rapporto della Digos non era indicato. Lavorare in tal modo è inconcepibile, siamo in pratica alle soglie della guerra civile e ci troviamo ancora in queste condizioni».

Le bombe in questione sono le SRCM, date in dotazione all’esercito per l’addestramento. Nella primavera del ’78 ne viene trovata una cassa nella caserma di Tauriano di Spilimbergo, vicino a Pordenone, dove Valerio Fioravanti ha effettuato il servizio militare. Altre, lo stesso Fioravanti, era riuscito a farle arrivare a Roma, dove finiscono nelle mani di molti gruppi che rivendicano le loro azioni con la sigla NAR, ma anche in quelle della criminalità organizzata: una bomba di questo tipo, infatti, viene trovata addosso a un esponente della ‘banda della Magliana’.

Una barca solitaria nel “porto delle nebbie”: Amato alla Procura di Roma
Per Amato, oltre alla responsabilità di un’indagine complessa e difficile, ci sono anche le insidie di un ambiente che lo isola e che in parte gli è addirittura ostile, ovvero la Procura di Roma, chiamata in quegli anni “il porto delle nebbie”. Il giornalista Roberto Martinelli racconta che a definirla così fu un «magistrato che prese la definizione da un libro di Georges Simenon, Il porto delle nebbie. Questo però non aveva nulla a che vedere con al realtà della Procura di Roma: Simenon racconta di un uomo ferito da un proiettile alla testa che perde udito e vista, e che quindi non vede nulla, mentre alla Procura di Roma si vedeva e si capiva perfettamente cosa stava accadendo».

Amato intanto, viene isolato sempre di più. Rifiuta, per non mischiare lavoro e amicizie, gli inviti a feste organizzate all’interno dell’ambiente giudiziario, tra cui quella dell’illustre psichiatra Aldo Semerari. Semerari è professore di Psichiatria forense, membro della P2 e collaboratore del SISMI, che ha tra i suoi pazienti esponenti della banda della Magliana e della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Inoltre riceve pressioni dal Giudice Istruttore Antonio Alibrandi, padre di Alessandro. Infatti il magistrato Paolo Cemmì ricorda che Alibrandi “gli aveva tolto il saluto fino a fargli capire che riteneva che Mario fosse fazioso nelle sue indagini”. A confermarlo è il magistrato Pietro Giordano: «Erano anni che lo attaccava dandogli del visionario e ricordo un episodio quasi comico; gli disse: “Ma io ti faccio arrestare!”. Si era arrivati persino a queste parole». Di fronte a testimoni, inoltre Alibrandi avviserà Amato di stare “attento, perché questi sparano”. E per questi, naturalmente, intendeva i NAR, di cui suo figlio faceva parte.

[Il giudice Alibrandi, contattato dagli autori della puntata, non ha voluto rilasciare nessuna dichiarazione].

Nel ‘79 Amato fa arrestare Signorelli, “cattivo maestro” dello spontaneismo armato
Primavera ‘79: tra aprile e maggio, alcune bombe scoppiano davanti al carcere di Regina Coeli, al Campidoglio e al Ministero degli Esteri. Un quarto ordigno, composto da 55 candelotti di dinamite, sono in attesa di esplodere davanti al CSM: ciò non avverrà per un difetto del timer. Gli attentati vengono rivendicati dal Movimento Rivoluzionario Popolare, e il 28 maggio viene arrestato Sergio Calore: a condurre le indagini è Mario Amato, insieme alla Procura di Rieti. La sua inchiesta si concentra sul gruppo di ‘Costruiamo l’Azione’, nato dalle ceneri di O.N. e Avanguardia Nazionale. Dopo Calore, il 7 giugno, viene arrestato Paolo Signorelli, esponente di punta di O.N. Tutto ciò scatena violenti polemiche contro Amato: ad attaccarlo sono sia parte della stampa, sia l’Ordine degli avvocati, i quali scrivono una lettera al Procuratore Generale in cui si dice che il comportamento di Amato deontologicamente non è stato corretto, e che quindi il Procuratore deve prendere dei provvedimenti.

Amato è convinto che Signorelli sia il “regista occulto” del terrorismo nero, il “maestro cattivo” che alleva i giovani gruppi dello spontaneismo armato formandoli con la propaganda e l’addestramento militare.
13 giugno ’80: audizione di Amato al CSM: «Siccome queste operazioni vengono compiute da persone che da anni e anni si battono per un certo tipo di ordine nuovo, non ci si può illudere che a un certo punto ci ripensino e dicano “Va bene, ora diventiamo dei bravi ragazzi”. Dobbiamo ricordarci che se in un momento vi è un ristagno, tra un mese o tra un anno verranno allo scoperto, parlo di tipi come Freda come Signorelli, come Concutelli, come Saccucci, come Ventura e cioè di un ambiente di cui soltanto alcuni sono detenuti. Io ho delle prove per esempio di attività che continuano a svolgere tipi come Concutelli o come Tuti: si tratta di un’azione di pressione nei confronti dell’ambiente giovanile de Movimento Sociale».

Dopo il fermo di Alibrandi, Amato inizia ad avere paura
Dicembre ’79, Roma: nell’arco di 17 giorni “cadono” i capi di quasi tutti i gruppi di estrema destra attivi nella Capitale. Il 5, dopo un rapina in banca, viene arrestato Dario Pedretti, capo del FUAN, il 14, in Via Alessandria, vengono arrestati Roberto Nistri e Peppe Dimitri, capi militari di Terza Posizione, gruppo egemone a Roma, mentre stanno portando delle armi in un covo che appartiene a Adriano Tilgher, dirigente di Avanguardia Nazionale, che però verrà scagionato da ogni accusa. Questo è il primo caso in cui viene trovato un deposito di armi.

17 dicembre ’79, Roma: un commando neofascista uccide uno studente lavoratore, Antonio Leandri, ma è un tragico errore di persona; la vittima predestinata era infatti l’avvocato Giorgio Arcangeli, anch’egli neofascista, accusato dai suoi camerati di aver fatto arrestare Concutelli. Dopo l’omicidio mentre si danno alla fuga, vengono arrestati quattro terroristi di destra tra cui Calore, da poco tornato in libertà. Del gruppo di fuoco fa parte anche Valerio Fioravanti, che però riesce a fuggire. Agli inizi dell’80 Fioravanti e i NAR, di cui è a capo, sono i protagonisti indiscussi dell’eversione nera a Roma. Nella loro cerchia confluiranno membri di altre formazioni, prima di tutte Terza Posizione. La violenza si fa più feroce: molte sono le persone uccise a sangue freddo.

Walter Sordi, al Tribunale di Bologna, 12 marzo ‘84: «La prima azione compiuta con Fioravanti fu l’omicidio dell’agente Maurizio Arnesano. In origine lo dovevano fare quelli del nucleo operativo di Terza Posizione, però temporeggiarono troppo e quindi Giorgio Vale chiamò Valerio Fioravanti». In un primo momento il fatto viene rivendicato sia dai movimenti della sinistra sia dai NAR. Attribuito inizialmente alla sinistra, poi, attraverso delle foto, si arriva ad Alessandro Alibrandi.

15 marzo ’80, audizione di Amato: «Il Procuratore mi chiamò e mi fece vedere il riconoscimento di Alessandro Alibrandi, figlio di un nostro collega magistrato. Il teste aveva riferito di essere certo al cento per cento dell’identificazione: io dissi che sarebbe stato opportuno fermare Alibrandi sussistendo tutti i presupposti, ma la polizia oppose che non era possibile; che in precedenza si erano verificati degli episodi incresciosi in cui la polizia riteneva che il predetto giovane avesse avuto un trattamento di favore da parte del nostro ufficio e quindi non si azzardava ad andare a casa del collega Alibrandi per prendere il figlio con un provvedimento di fermo».

A questo punto Amato predispone l’ordine di cattura, ma visto che De Matteo, Procuratore Capo di Roma, non vuole firmarlo, chiede che l’ordine di cattura sia emesso dal PM che era di turno quel giorno, il dottor Catalani: finalmente Alibrandi viene arrestato. Ad uccidere l’agente Arnesano furono Fioravanti e Vale: Alibrandi quindi era quindi estraneo all’accaduto, ma la vicenda del mandato di cattura verso di lui innesca nuove polemiche. Amato è sempre più esposto e sempre più nel mirino: inizia ad avere paura.

1980, una morte annunciata per il Procuratore Amato
Come racconta Sergio Amato, figlio di Mario: «Ero a casa con un amichetto, probabilmente rovistavamo tra le cose di mio padre, e uscì fuori questa pistola: ricordo la sorpresa di trovare quell’oggetto in mano. […]. Era la conferma che papà era in pericolo». Amato è ormai quindi consapevole di essere un potenziale bersaglio. Ma continua, sempre da solo, sempre senza scorta. E mentre sulle BR i processi vanno avanti, sul terrorismo di destra sembra impossibile rompere il muro di omertà. Poi, almeno all’apparenza, la svolta.

È il 21 aprile ‘80: nella relazione al Procuratore Capo di Roma, Giovanni de Matteo, Amato scrive: «Il 17 aprile mi è pervenuta una lettera anonima secondo cui Massimi Marco Mario, era a conoscenza di notizie utili sui Nuclei Armati Rivoluzionari, sulle Comunità Organiche di Popolo e sul Movimento Rivoluzionario Popolare. Il Massimi, da me interpellato, ha ammesso senza esitare di essere l’autore della lettera e mi ha dichiarato di conoscere fatti utili alle indagini, e a conferma di quanto mi stava dicendo, estraeva da sotto la camicia una catenina con applicata un’ascia bipenne, simbolo della disciolta associazione sovversiva O.N., sostenendo di aver aderito a essa sin dal 1962. Prima ancora che il sottoscritto potesse fargli delle domande, dichiara che naturalmente la lettera a me pervenuta doveva sparire»

Massimi non vuole verbalizzare le sue dichiarazioni, che quindi vengono sottovalutate: il Procuratore non prende nessuna decisione in merito e quindi Amato va in contro da solo al suo destino. Eppure Massimi è stato chiaro, molto chiaro. Il pentito è un “fiume in piena”: descrive la vera struttura dei NAR, affermando che i veri capi sono Signorelli, Mutti e il criminologo Semerari. Racconta di rapine e omicidi ma soprattutto rivela che nel mirino dei terroristi ora ci sono agenti della polizia e carabinieri. E un altro dei maggiori obiettivi è proprio Amato.

Piero Mesa, cognato di Amato, ne ricorda le crescenti preoccupazioni: Amato sapeva bene che le dichiarazioni di Massimi erano vere; percepiva concretamente il pericolo. Le dichiarazioni inoltre trovano subito una tragica e chiara conferma: il 28 maggio ‘80 un commando dei NAR attacca una volante della Polizia, di guardia davanti al liceo romano Giulio Cesare: nello scontro a fuoco muore l’agente Franco Evangelista, detto “Serpico” e altri due rimangono gravemente feriti. Pochi giorni più tardi Amato ritorna davanti al CSM e rinnova le sue preoccupazioni, il suo appello e il suo grido di solitudine. Ma intanto i NAR hanno già iniziato a “preparare” il suo omicidio.

Tribunale di Bologna, 17 novembre ’89, Francesca Mambro: «Ci furono contatti con Alibrandi e altre persone e si parlava anche con una certa frequenza del Dottor Amato. Quello che ha contribuito all’“obiettivo Amato” è stato il fatto che dovevamo dimostrare che la magistratura non era assolutamente dalla nostra parte, anzi semmai era il contrario»

Una “fredda” mattina di giugno…
Il 22 giugno 1980 Amato, poiché la sua automobile era dal meccanico, chiama in ufficio per chiedere la macchina blindata, ma gli rispondono che non è disponibile per l’ora da lui richiesta.

Il giorno seguente, lunedì 23 giugno, tre testimoni oculari ricordano di aver visto un ragazzo di circa trent’anni che sostava all’angolo tra Via di Monte Rocchetta e Viale Ionio. Era stempiato, con i capelli lisci e indossava un completo nocciola. Intorno alle 7:50 Amato esce di casa, svolta su Viale Ionio e si ferma ad aspettare l’autobus: viene freddato con un colpo di pistola alla nuca. Il killer riesce poi a scappare con il suo complice, che lo aspetta su una moto di grossa cilindrata.

Sarà Sergio ad avvertire sua sorella Cristina che è successo qualcosa al loro papà: allora lui aveva sei anni e ricorda di aver sentito la mamma piangere e urlare. Ma la verità la verranno a sapere solo più tardi, al momento Cristina pensava si trattasse solo di un incidente: «L’ho pensato tutto il giorno, finché mio fratello è arrivato e mi ha detto: “Papà l’hanno ucciso con la pistola”. Mio fratello di sei anni»

Così Fioravanti, al Tribunale di Bologna, l’11 novembre ’89, ha spiegato le motivazioni dell’omicidio: «L’“obiettivo Amato” era stato identificato da parte nostra per dare un segno evidente, plateale quasi, della rottura che poteva avvenire tra noi e quella serie di apparati dello Stato a cui eravamo stati come minimo “simpatici” fino a quel momento». Ad ucciderlo, quindi, non è stato solamente l’esecutore, Gilberto Cavallini, ma anche come affermò Walter Sordi (ex NAR) il 12 marzo ’84 «da quella perversa mentalità, da quella perversa logica che c’era in quegli anni a Roma: in quel periodo qualunque gruppo di Roma poteva essere il FUAN o poteva essere Terza Posizione, potevano essere i NAR o chiunque altro, aveva in animo di fare un attentato contro Amato. Quest’odio veniva da persone che avevano una certa esperienza, una certa capacità politica e un certo carisma».

Cristina ha dichiarato: «Non posso non pensarlo, c’è stata una volontà. Ci sono troppe coincidenze, mio padre dopo tre giorni partiva per il mare e questa è una cosa che poteva sapere soltanto qualcuno, mi sembra proprio strano che hanno deciso per quel giorno e non dieci giorni dopo o un mese prima. Il fatto che non aveva la macchina…». Riguardo agli assassini, Sergio pensa che «In primo luogo non sono pentiti. Non abbiamo ricevuto nessun avvicinamento, non sono mai venuti fuori i mandanti. Penso che hanno un atteggiamento da pentiti, ma non lo sono. Mi hanno privato di mio padre, di vivere dell’amore che c’era tra mio padre e mia madre, mi hanno privato forse anche di tante possibilità nella mia vita, probabilmente. Mio padre era una persona eclettica, una persona viva e quindi penso che avremmo potuto fare tante cose insieme».

All’inizio dell’80 Amato è il quinto magistrato ucciso dal terrorismo, e il terzo solo a Roma. Si rinnovano le polemiche per la scorta e per la solitudine in cui è stato costretto a lavorare. È l’ennesimo “eroe borghese” ucciso solo perché faceva il suo mestiere.

La lista nera
Gilberto Cavallini, esecutore materiale, è stato condannato all’ergastolo. Ottenuta la semilibertà nel 2001, è stato nuovamente arrestato nel 2002 per possesso di arma da fuoco. Luigi Ciavardini il giorno dell’omicidio guidava la moto, minorenne all’epoca dei fatti è stato condannato a dieci anni e due mesi di reclusione. Fioravanti e Mambro sono stati condannati all’ergastolo per concorso all’omicidio di Amato, attualmente sono entrambi in semilibertà.

Paolo Signorelli condannato all’ergastolo in primo grado e in appello, dopo sei processi è stato definitivamente assolto dalla Cassazione. Aldo Semerari è stato trovato decapitato il 1 aprile ‘82 a Ottaviano in provincia di Napoli, il Paese del boss della camorra Cutolo. Il Procuratore Capo della Repubblica di Roma, Giovanni de Matteo, è stato trasferito dal CSM alla Corte di Cassazione, messo sotto inchiesta per la mancata protezione di Amato, è stato assolto dal tribunale di Perugia.

In seguito alla morte di Amato, alla Procura di Roma sono state assegnate trecento macchine blindate, si è inoltre costituito un pool di magistrati il cui lavoro ha consentito di sgominare il terrorismo di destra a Roma.

FONTE

VIDEO:PERCHè MARIO AMATO?

Perchè Tobagi?

Il 28 maggio del 1980 alle 11.10 viene ucciso a Milano, in via Salaino, il giornalista del Corriere della Sera, Walter Tobagi. Un commando di giovani ragazzi, buona parte dei quali appartenenti a famiglie della Milano “bene”, gli spara a poca distanza da casa, mentre sta andando a piedi a prendere l’automobile per recarsi al giornale. Nel giro di poche ore, secondo il tragico rituale della lotta armata, l’assassinio viene rivendicato, attraverso un volantino, da una nuova sigla del terrorismo rosso: la “Brigata 28 marzo”.

La mattina dell’assassinio
Era una mattina fredda quella del 28 maggio 1980.
Il giornalista Walter Tobagi, di 33 anni, esce di casa poco dopo le 11 e si avvia verso via Salaino, nei pressi della sua abitazione (in via Andrea Solari, n.2, all’incrocio con via Montevideo), per prendere l’auto in garage. A Tobagi si avvicinano due giovani armati: partono alcuni colpi di pistola. Il giornalista cade a terra, a ridosso del marciapiede.
Come si saprà in seguito, all’agguato partecipano sei persone: Marco Barbone, Paolo Morandini, Mario Marano, Francesco Giordano, Daniele Laus e Manfredi De Stefano. In seguito si saprà anche che a sparare il colpo mortale è stato il leader del gruppo Marco Barbone. Mario Marano confesserà durante il “processo Tobagi” che Barbone, dopo aver già esploso tre colpi, si avvicinò al giornalista e disse: “Non è morto ed esplode un altro colpo”.
I colpi sparati- sei per la precisione- vengono uditi fino a casa Tobagi. Sua moglie Stella esce di casa correndo tenendo per mano la figlia Benedetta, di tre anni: raggiunge il corpo di Walter che giace sul selciato bagnato, gli si inginocchia accanto e piangendo gli accarezza i capelli. Sopraggiungono i genitori che vedono abbattuti lì i sacrifici ed i sogni della loro vita. “Abbiamo lavorato tutta la vita per Walter, ora dobbiamo pensare ai suoi bambini”, disse Ulderico Tobagi, padre di Walter. “Per questi bambini noi siamo qui.” (Dalle “conclusioni motivate” dell’avv. Antonio Pinto, pagina 1).

La notizia dell’assassinio di Walter, arriva al Corriere della Sera nella tarda mattinata, dove Tobagi lavorava: la sede del quotidiano milanese avverte l’assassinio come lo rottura di una tensione che si stava vivendo da tempo.

Perché Walter Tobagi?
In un articolo di Leo Valiani tratto da “Testimone scomodo. Walter Tobagi – Scritti scelti 1975-80” leggiamo : “Si voleva colpire in lui un difensore, coraggioso, tenace, nobile, della democrazia, un militante del movimento socialista, democratico dei lavoratori italiani, un militante che, per di più, si occupava seriamente dei problemi in questione, senza illudersi di poterli sublimare con la retorica. Si era in un clima da «guerra fredda» culturale, da crociata ideologica e Tobagi, da storico, non si lasciò arruolare, né di qua, né di là. Studiava, scriveva, pubblicava non per il successo di una parte, e neppure di una tesi, ma per la ricerca della verità. cercava non solo di scoprire chi erano i terroristi, ma altresì di conoscerli da vicino, di comprenderli. Sapeva e, diversamente dalla moda allora corrente, non cercava di nascondere che in maggioranza erano rossi e non neri (benché i neri non mancassero) senza, per questo, ricondurli genericamente al marxismo. Vedeva, inoltre, le circostanze specifiche del terrorismo italiano. Uno dei suoi assassini, rimesso troppo presto in libertà, dopo la condanna eccessivamente mite, ha confessato poco dopo: «se ci avessero fermati quando usavamo le spranghe di ferro, non saremmo arrivati a sparare per uccidere».”

Sempre Valiani ci racconta “Tobagi comincia a entrare anche sul terreno politico e sindacale dopo essersi ‘fatto le ossa’ sulle vicende del terrorismo di destra e di sinistra. (a quel tempo, nella stessa sinistra si manifestavano forti remore ad accettare un terrorismo rosso: tutto, infatti, veniva etichettato come «nero», più o meno mascherato; ogni gruppo che compiva attentati era «opera di fascisti e provocatori»). Tobagi aveva cominciato a invadere il terreno politico con analisi sui risultati elettorali del ‘72, nelle aree tradizionalmente di destra del sud; aveva scritto della rivolta di destra a Reggio Calabria con i «boia chi molla» di Ciccio Franco e scavava, con note e interviste nei congressi provinciali dei partiti e si divertiva a scrivere profili di Sandro Pertini e Pietro Nenni.”

Ancora in “Testimone scomodo. Walter Tobagi – Scritti scelti 1975-80”, a cura di Aldo Forbice, si legge: Il giornalista e scrittore Giampaolo Pansa ha affermato che: «Tobagi sul tema del terrorismo non ha mai strillato. Però, pur nello sforzo di capire le retrovie e di non confondere i capi con i gregari era un avversario rigoroso. Il terrorismo era tutto il contrario della sua cristianità e del suo socialismo. Aveva capito che si trattava del tarlo più pericoloso per questo paese. Tobagi sapeva che il terrorismo poteva annientare la nostra democrazia. Dunque, egli aveva capito più degli altri: era divenuto un obiettivo, soprattutto perché era stato capace di mettere la mano nella nuvola nera».

Tobagi aveva cercato di sfatare i luoghi comuni sulle Brigate Rosse e sugli altri gruppi armati, denunciando i pericoli di un radicamento del fenomeno terroristico nelle fabbriche e negli altri luoghi di lavoro. «La sconfitta politica del terrorismo – scriveva Tobagi – passa attraverso scelte coraggiose: è la famosa risaia da prosciugare, tenendo conto che i confini della risaia sono meglio definiti oggi che non tre mesi fa. E tenendo conto di un altro fattore decisivo: l’immagine delle Brigate rosse si è rovesciata, sono emerse falle e debolezze e forse non è azzardato pensare che tante confessioni nascono non dalla paura, quanto da dissensi interni, sull’organizzazione e sulla linea del partito armato».

La sera prima del suo assassinio, Tobagi si trovava al Circolo della stampa di Milano per presiedere un convegno dal titolo “Fare cronaca tra segreto istruttorio e segreto professionale” e per .discutere del «caso Isman», ovvero il caso di un giornalista del «Messaggero» incarcerato insieme al funzionario del Ministero dell’Interno e dei servizi di sicurezza del Viminale Silvano Russomanno, per aver pubblicato i verbali secretati di Patrizio Peci, membro della direzione strategica delle Brigate Rosse, primo collaboratore di giustizia della lotta armata di sinistra. Durante quell’incontro Tobagi si era soffermato sull’importanza della libertà di stampa, sulla responsabilità del giornalista di fronte all’offensiva delle bande terroristiche ed aveva concluso dicendo: “Chissà a chi toccherà la prossima volta”. Poi, dieci ore più tardi, la sua morte.

Il giornalista sapeva, per via delle continue minacce che aveva ricevuto, che, prima o poi, sarebbe caduto nel mirino dei terroristi. In una lettera del Natale 1978 così scrisse a sua moglie Stella: “ …al lavoro affannoso di questi mesi va data una ragione, che io avverto molto forte: è la ragione di una persona che si sente intellettualmente onesta, libera e indipendente e cerca di capire perché si è arrivati a questo punto di lacerazione sociale, di disprezzo dei valori umani […] per contribuire a quella ricerca ideologica che mi pare preliminare per qualsiasi mutamento, miglioramento nei comportamenti collettivi….Nell’Associazione […] il motivo per cui mi sono addossato quella parte è un altro: un gesto di solidarietà verso quei colleghi, che considero anche amici, coi quali ho condiviso tante esperienze negli ultimi due anni. Un senso di solidarietà, un modo di non ragionare solo in termini di utilitarismo personale”.

Chi era Marco Barbone
Marco Barbone era un giovane di 22 anni, della Milano “bene”, divenuto leader dei un’Organizzazione terroristica di estrema sinistra che prese il nome di “Brigata 28marzo”. Tale Organizzazione si formò a Milano nel maggio del 1980, immediatamente dopo l’uccisione di quattro militanti delle Brigate Rosse avvenuta a Genova, in Via Fracchia, il 28 marzo 1980, durante un blitz dei carabinieri del generale dalla Chiesa. I componenti del gruppo della “Brigata 28 marzo” provenivano da diverse formazioni come le Brigate Comuniste, le Unità Comuniste Combattenti e le Formazioni Comuniste Combattenti.

Oggetto della loro lotta era il mondo dei media, soprattutto i giornalisti della carta stampata. Nel maggio del 1980 a Milano la Brigata ferì prima Guido Passalacqua, giornalista di Repubblica e, subito dopo, uccise il giornalista del Corriere della Sera Walter Tobagi, attentato che venne pianificato come esecuzione. All’epoca Tobagi era uno dei più importanti giornalisti del momento e presidente dell’Associazione Lombarda dei Giornalisti; come cronista del Corriere aveva spesso analizzato in maniera fortemente critica il fenomeno terroristico in Italia. Nell’ottobre del 1980 Barbone fu arrestato e la sua collaborazione con le forze dell’ordine portò all’incarcerazione dei membri del gruppo. Piero Scorti, nel suo libro l’“Affaire Tobagi, un giallo politico”, riporta stralci degli interrogatori di Barbone, avvenuti nell’ottobre dell’’80. Il 9 ottobre il giovane avrebbe raccontato: “A proposito dell’azione di Novara (il tentato omicidio dei due carabinieri Claudio Perosino e Guido Bressanmi), mi viene in mente ora che fu proprio dopo la sua attuazione che si parlò per la prima volta della possibilità di compiere un’azione contro Tobagi.” E più avanti: “Quale giornalista da sequestrare si pensò subito, senza alternative, a Tobagi, perché sin da allora lo individuammo come figura di spicco all’interno della corporazione giornalistica. Ovviamente contava anche il fatto che era un giornalista del Corriere della Sera”.

Qualche giorno dopo, il 12 ottobre (sempre dalle parole di Piero Scorti) Barbone racconta: “Nonostante il piano di sequestro non fosse stato sufficientemente studiato, Marocco ed altri, che non ricordo, si piazzarono sotto casa Tobagi con un camioncino rubato, decisi a fare il sequestro. Senonché videro arrivare una pantera della polizia che, dopo essersi avvicinata al camioncino, se ne allontanò… Il progetto di sequestro del Tobagi fu, pertanto, definitivamente abbandonato.” Rocco Ricciardi,il super pentito-infiltrato che usufruì dei benefici della legge sui pentiti, disse nel corso di una deposizione sul caso Tobagi: “Come ho già avuto occasione di riferire, di questo settore dell’informazione si occupava Barbone, motivo per cui si esaminò in particolare con lui e la sua ragazza, Caterina Rosenzweig, quale avrebbe potuto essere il giornalista idoneo allo scopo. Rammento che nel corso della discussione si fece dapprima il nome di Bocca, che venne scartato per la sua collocazione politica troppo spostata a sinistra, e Barbone fece il nome di Tobagi. In particolare mi sembra di ricordare che la proposta fu avanzata perché questa sembrava la persona meglio nota a Caterina, che ne parlava come di un amico della sua famiglia, e come una persona con la quale aveva avuto esperienze di lavoro. Avendolo frequentato avrebbe potuto fornire utili informazioni sia sulla sua abitazione che sulle sue abitudini, d’altra parte, il fatto che Tobagi si occupasse in particolare professionalmente del fenomeno del terrorismo, lo rendeva idoneo al progetto in atto. Iniziammo così degli appostamenti attorno alla sua abitazione nei pressi di via Solari e sul posto di lavoro, vicino alla casa in cui vivevano Barbone e Caterina in via Solverino, dove c’è la sede del Corriere della Sera. Progettammo di sequestrarlo servendoci di un furgone che, infatti, rubammo alla fine di gennaio del 1978 a Porta Genova.” Durante il processo Barbone confermerà tutto. Vale a dire che “fu accompagnato da Caterina Rosenzweig sotto casa di Tobagi per l’appostamento; il poveretto gli era stato indicato da lei e da Pietro Guido, mentre usciva da una riunione, appunto in vista del sequestro.”

Sempre durante il processo, Ricciardi aggiungerà che “la Caterina Rosenzweig fu incaricata di raccogliere notizie su Tobagi e che lei ‘passò la scheda’.” (tratto da l’ “Affaire Tobagi, un giallo politico, di Piero Scorti). Tobagi, dunque, fu trascinato nel mirino dei terroristi per circa due anni e lì rimase fino all’assassinio, il 28 maggio del 1980.

Un altro “caso” scoppiò, inoltre, intorno a Caterina Rosenzweig, la fidanzata di Marco Barbone, accusata di aver partecipato alle fasi preparatorie dell’omicidio, ma mai coinvolta formalmente nel processo. La Rosenzweig, proveniente da una ricca famiglia milanese, nel 1978 (due anni prima dell’omicidio) aveva lungamente pedinato Tobagi, suo docente di storia all’Università Statale di Milano. A quei tempi l’obiettivo del gruppo “Brigata 28 marzo” era esclusivamente il rapimento del giornalista.

Anche se nel settembre 1980 venne arrestata insieme agli altri componenti del suo gruppo, Caterina Rosenzweig venne misteriosamente assolta per insufficienza di prove ed in seguito se ne persero le tracce in Brasile. Eppure, proprio in casa Rosenzweig, in via Solferino 34, a pochi passi dal portone del Corriere, fu ideato l’assassinio di Tobagi e poi scritto il volantino della rivendicazione.

I Magistrati milanesi riuscirono, più di due anni dopo, a dare vita a uno dei primi maxi-processi contro il terrorismo “rosso”: in quell’occasione in un’aula bunker dell’ex carcere minorile di Milano, per la prima volta sfilano davanti alle telecamere i giovani assassini di Tobagi, e insieme a loro anche altri 150 imputati per fatti di terrorismo. Durante gli otto mesi di processo ci furono moltissime polemiche legate alla ricerca dei possibili mandanti dell’omicidio, persino negli ambienti vicini allo stesso Corriere della Sera.

Le polemiche raggiunsero l’apice il giorno della sentenza, il 28 novembre del 1983. Grazie alla neonata legge sui pentiti, infatti, per Barbone, esecutore materiale e reo confesso, venne stabilita una pena irrisoria, in quanto collaboratore di giustizia. Grazie ai mesi già passati in carcere, a Barbone venne concessa quello stesso giorno la libertà provvisoria davanti alle telecamere. Le immagini della liberazione in aula di un reo-confesso di omicidio, provocheranno un’ondata di critiche e sdegno in una parte dell’opinione pubblica, nei confronti dell’operato dei Magistrati, con in testa il Pubblico Ministero Armando Spataro. Ma c’e’ dell’altro. A pochi giorni dalla sentenza, scoppia attorno all’omicidio Tobagi, un caso politico-istituzionale: il Segretario del Partito Socialista, Bettino Craxi, rese nota, durante una manifestazione pubblica, la notizia dell’esistenza di un’informativa dei Carabinieri di Milano, un documento ufficiale datato dicembre 1979 (quindi sei mesi prima dell’omicidio del giornalista), nel quale si farebbe espresso riferimento ad un progetto di omicidio nei confronti di Walter Tobagi.

Nel documento, mai reso pubblico, si farebbero i nomi dei possibili attentatori, descrivendo anche la zona dove sarebbe dovuto avvenire l’agguato, per l’appunto via Solari e zone limitrofe, dove abitava Tobagi. La notizia ebbe grande eco sui giornali, e i socialisti, politicamente vicini alla figura di Tobagi, ingaggiarono una vera e propria campagna di protesta contro Magistrati e Carabinieri, parlando per la prima volta di “delitto annunciato”. Ci si chiese se non vi fossero stati comportamenti omissivi, volontari e non, che abbiano impedito di prevenire un omicidio. La polemica avrà riflessi politici e costringerà l’allora Ministro degli Interni Oscar Luigi Scalfaro, a rispondere dei fatti in Parlamento.

Il 28 novembre 1983 si chiuse il processo agli assassini di Tobagi. Grazie alla legge sui pentiti, a Barbone, esecutore materiale e reo confesso, venne comminata, come detto, una pena molto mite e ottenne quello stesso giorno la libertà provvisoria iniziando a godere di una nuova vita e identità. La libertà che i giudici hanno regalato al pentito ha fatto gridare allo scandalo per molti motivi. In primis quello più materiale: che cosa aveva dato, in fondo, allo Stato Democratico, questo piccolo killer, visto che, quando decise di collaborare, i suoi complici erano già tutti detenuti e individuati?

Oggi Marco Barbone scrive articoli sulla rivista del quotidiano “Il giornale”, “Tempi. Riportiamo qui parte di un articolo dal titolo “Amnesia delle BR”:
“I terroristi? Figli che “giocano” nel cortile di casa ex-post-neo comunista. Lo dice Bossi? No, un ex “giocatore”
Ci scusiamo con i due grandi del cinema italiano per l’utilizzo del titolo del loro nuovo film. Vorremmo scrivervi qualche considerazione sull’omicidio del Prof. Biagi e il titolo più appropriato ci sembra quello scelto da Salvatores ed Abatantuomo che peraltro hanno ricevuto 500 milioni l’uno e 700 l’altro per le loro fatiche. Non male per due estremisti di sinistra (area Rifondazione) considerando che questa montagna di quattrini si assomma ad altre già percepite grazie ai favori di Silvio Berlusconi. Ma tant’è… Dicevamo delle amnesie: quella sicuramente più drammatica, è l’amnesia del ministero dell’interno che non ha scortato la povera vittima; evidentemente il fatto che le Br abbiano sanguinosamente attaccato il ministero del Lavoro negli ultimi anni, non ha significato nulla (e come vedremo, l’attenzione al ministero del Lavoro ha una sua specifica spiegazione, un significato politico). Questi pensieri ci vengono ricordando le dimissioni dell’allora ministro degli Interni Francesco Cossiga allorché venne rinvenuto il cadavere di Aldo Moro: un gesto di moralità politica che in questa occasione è mancato; e questo non fa onore al governo che pure è parte lesa in questo omicidio. Forse sono passati troppi anni dalla fine degli anni ’80, dalla fine dei grandi processi per terrorismo, per questo siamo ancora lì a titolare: “la pistola è la stessa”. E allora? Che interesse ha questo dettaglio? Nessuno, l’omicidio del Prof. Biagi non è un delitto comune, è un tragico gesto politico e come tale va analizzato. (http://www.politicaonline.net/forum/showthread.php?t=3727)

Walter Tobagi poteva essere salvato?
Il 17 giugno del 2004 il giornalista Renzo Magosso, amico dello stesso Tobagi, firma su “Gente” un’intervista ad un sottufficiale dei Carabinieri, Dario Covolo, il quale testimonia di aver presentato ai suoi superiori quella informativa sei mesi prima del delitto che, però, non fu presa in considerazione. Nel giugno del 2004 l’Onorevole Marco Boato chiede in Parlamento che si riapra il caso dell’assassinio Tobagi, facendo riferimento proprio a quelle dichiarazioni e all’ uscita del libro-inchiesta di Daniele Biacchessi su Walter Tobagi.

Nel settembre 2007 il giornalista Magosso è stato condannato, per diffamazione verso il generale Ruffino e la sorella del defunto generale Bonaventura, al pagamento di una sanzione pecuniaria: mille euro la richiesta del Pubblico Ministero accolta dal giudice e, rispettivamente, 120 mila e 90 mila euro di risarcimento per le parti offese più le spese processuali. Secondo il tribunale di Monza, infatti, il giornalista non avrebbe ricordato nel suo articolo che la ricostruzione dell’ex carabiniere era stata contestata da altre persone.

Il 20 settembre il segretario generale della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, Paolo Serventi Longhi, ha dichiarato: «La sentenza con la quale e’ stato condannato per diffamazione il collega Renzo Magosso va rispettata come tutte le decisioni della Magistratura. Ritengo però singolare che Magosso sia stato condannato nonostante capi riconosciuti del terrorismo, responsabili dell’atroce omicidio di Walter Tobagi, abbiano confermato nella sede giudiziaria tutte le notizie che lo stesso Magosso aveva raccolto».

FONTE

VIDEO: PERCHè TOBAGI?

Moro, mio padre.

“Come tutti sanno, i fantasmi sono morti che non riposano in pace e che non lasciano in pace nemmeno i vivi, perché continuano a manifestarsi chiedendo loro di onorare un debito, o di liberarli dalla maledizione che consiste proprio nel dover ritornare. Penso che la nostra vita pubblica sia attraversata da molti fantasmi degli Anni Settanta. Il più ovvio e ingombrante di questi fantasmi è quello di Aldo Moro.

Nel suo ultimo libro, Anni Settanta, uscito lo scorso 16 ottobre, Giovanni Moro, quarto figlio dello statista ucciso dalle BR, indirizza parole durissime contro i dirigenti politici di allora, in particolare contro Cossiga e Andreotti.
In una democrazia normale, il ministro dell’ Interno avrebbe probabilmente passato il resto della sua vita a coltivare rose o a scrivere libri di memorie per riscattare la sua immagine. In Italia, invece, egli è stato quasi subito nominato primo ministro per due volte, quindi per due volte presidente del Senato e infine presidente della Repubblica. Difficile non sentire in tutto ciò il sapore di un premio, naturalmente di consolazione.
La risposta non si fa attendere e i toni della replica sono altrettanto aspri. Secondo Cossiga, ministro dell’Interno nei giorni tragici del sequestro e dell’assassinio del Presidente della DC, sostiene che “Giovanni Moro ha ereditato dal padre soltanto il cognome; che certo non porta con molto onore”.

Giovanni, quarto e ultimo figlio di Aldo Moro, a vent’anni dal sequestro e dalla tragica scomparsa del padre, ha rilasciato a Giovanni Minoli un’importante intervista in cui affronta anche questi temi. In occasione della sua riproposizione, nel marzo del 2003,“La storia siamo noi” ha chiesto a Giovanni Moro se volesse aggiungere qualcosa al confronto di allora. Ha detto di no, quello era ed è ancora il suo pensiero.

Nel 1978, Giovanni Moro aveva vent’anni.
Nel corso del “Faccia a faccia” con Giovanni Minoli, l’unico figlio maschio del Presidente della DC rapito dalle Brigate Rosse evita volutamente qualunque ricordo personale e familiare. Del “caso Moro”, egli sottolinea soprattutto il significato storico e politico, puntualizzando i molti aspetti dell’intera vicenda rimasti ancora oscuri, sui quali Giovanni Moro chiede con forza che venga fatta chiarezza.
Nelle sue parole, si delinea un ritratto di Aldo Moro come di un uomo riservato, che in famiglia parlava poco dei problemi e delle preoccupazioni legate al suo ruolo di primo piano sulla scena politica italiana e internazionale.
Ma Giovanni Moro ricorda anche che nei mesi precedenti al sequestro, il padre manifestò forti preoccupazioni per sé e per la sua famiglia, in particolare dopo che nel 1977 le Brigate Rosse avevano rapito il figlio dell’onorevole Francesco De Martino (fino all’anno precedente, Segretario del Partito Socialista) e che tutta la famiglia Moro era stata messa sotto scorta.
Giovanni Moro legge il “caso Moro” come una profonda battuta di arresto nel viaggio della società italiana verso una democrazia compiuta, processo che il padre cercò di accelerare attraverso una politica di avvicinamento al PCI di Enrico Berlinguer. La grande intuizione di Aldo Moro, secondo il figlio, è stata quella di aver colto prima degli altri, forse perfino troppo presto, il tramonto dell’epoca della Guerra Fredda, anche per la sua lunga esperienza di Ministro degli Esteri (1969-‘74).
E proprio perché la Guerra Fredda stava finendo, non c’era ragione di mantenere un assetto, anche interno, legato alle logiche della contrapposizione Est-Ovest.
Ma il processo di transizione da una democrazia bloccata a una democrazia compiuta, in cui la politica avviasse un dialogo con una società civile che era divenuta ormai autonoma dalla politica dei partiti, fu interrotto bruscamente dal rapimento di Aldo Moro e dal suo assassinio, il 9 maggio 1978. Dice Giovanni Moro: “Abbiamo perso 15 anni, questo processo è ricominciato solo a partire dagli anni Novanta”.
D’altra parte, l’apertura verso il PCI procurò ad Aldo Moro l’ostilità di molti ambienti internazionali e di ampi settori della politica interna italiana. E molti si domandano, ancora oggi, se proprio questa ostilità possa essere stata all’origine di molti misteri che – ritengono i più – ancora circondano il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro.
Per parte sua, Giovanni Moro ricorda il senso di confusione che avvolse le indagini. La famiglia Moro, in quei 54 giorni, ebbe la sensazione di trovarsi nell’occhio del ciclone, dove tutto appariva calmo, ma dove però non era possibile avere una visione chiara di ciò che si stava tentando per arrivare alla liberazione del Presidente della DC. Rimane, nel ricordo di Giovanni Moro, la sensazione che le autorità preposte alle indagini abbiano prodotto “atti simbolici”, più che agire in modo efficace. Un esempio per tutti: nel covo di via Gradoli, il 18 aprile 1978 furono trovati materiali che avrebbero potuto condurre alla tipografia di Via Pio Foà e, di lì, a Mario Moretti (il brigatista che ebbe il compito di “gestire” il sequestro Moro e che materialmente “interrogò” il prigioniero), e, probabilmente a via Montalcini. Perché, si chiede Giovanni Moro, questa pista non fu seguita in modo adeguato?
E ancora, per quanto riguarda invece i terroristi: “Perché”, vorrebbe chiedere Giovanni Moro a Moretti, “fu decisa l’esecuzione, proprio quando si stava discutendo di un eventuale scambio di prigionieri tramite la concessione della grazia ad un terrorista e alla vigilia di una riunione della Democrazia Cristiana in cui Fanfani si sarebbe espresso a favore della trattativa, con una conseguente rottura della linea della fermezza?”. E poi: perché, pur avendo nelle loro mani informazioni esplosive, provenienti dal cosiddetto “Memoriale Moro”, (ad esempio su Gladio), le Brigate Rosse decisero di non diffonderle? I terroristi, secondo Giovanni Moro, non hanno detto ancora tutta la verità, la somministrano in pillole anno dopo anno; eppure, prosegue il figlio del Presidente democristiano, malgrado queste reticenze usufruiscono dei benefici giudiziari, riguardo ai quali Giovanni Moro non può che dirsi perplesso.
Ma a chi giova che il caso Moro rimanga ancora avvolto nel mistero? Per Giovanni Moro, nessun vero cambiamento potrà avvenire in Italia se prima non sarà definitivamente chiarito l’episodio che ha spaccato in due la storia della Repubblica Italiana: “Non si può pensar di passare dalla prima alla seconda Repubblica senza chiudere serenamente con il passato”, conclude Giovanni Moro: “occorre costruire una verità condivisa, altrimenti ci sarà sempre questo fantasma che ci insegue”.

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VIDEO: INTERVISTA COMPLETA A GIOVANNI MORO

Il guru del Watergate: Obama? Troppo debole, nessuno lo rispetta

Un capo che non comanda. E che perde pezzi pregiati. Si chiama Barack Obama. E ha appena vissuto 24 ore da incubo. Nella notte il suo superconsigliere economico, Larry Summers, ha annunciato che a novembre rimetterà il mandato; dopo qualche ora, Herbert Allison, una dei principali assistenti del ministro Tesoro Geithner, ha dichiarato che farà altrettanto, mentre si diffondo le voci su Emanuel Rahm, il capo di Gabinetto che, pur essendo un grande amico di Barack, vuole tornare a Chicago per fare il sindaco. Tutto questo mentre il Senato bocciava la legge sui soldati gay.

Ma a far rumore è stato soprattutto lo scoop del New York Times, che ieri ha anticipato i brani salienti dell’ultimo libro di Bob Woodward, intitolato «Obama’s War». Woodward è il cronista che, assieme a Carl Bernstein, negli anni Settanta fece cadere Nixon.
Da allora Woodward continua ad essere considerato un giornalista d’inchiesta, che però ha cambiato pelle. Formalmente è ancora molto temuto dal potere politico; in realtà ogni presidente in carica gli dà l’opportunità di scrivere un libro aprendogli le porte dell’Amministrazione, con incontri e retroscena esclusivi.

L’apparenza è quella del libro di denuncia, in realtà nei suoi saggi Woodward viene imboccato dagli spin doctor che lo usano per far passare il messaggio da loro voluto. Come dimostrano almeno un paio di libri sull’Amministrazione Bush. Memorabili, ma in negativo.
Lo stesso è avvenuto con Obama, solo che gli spin doctor di Barack devono essere meno bravi dei loro predecessori, perché l’operazione è sfuggita di mano. Il saggio di Woodward rivela profonde divisioni tra i consiglieri militari e il presidente sulla guerra in Afghanistan. Lo schema narrativo mira a far emergere le reali intenzioni del presidente, molto più pacifista e moderato dei suoi collaboratori, che alla fine impone un compromesso. Lo scopo, evidente, è di strizzare l’occhio all’elettorato di sinistra, deluso dal primo presidente di colore degli Usa.
L’effetto finale, però, è ben diverso da quello previsto. Obama appare come un presidente “professorale”, che assegna “compiti a casa ai suoi sottoposti”, ma che stenta a farsi rispettare; al punto che per essere sicuro che i propri ordini vengano eseguiti è costretto a stilare un documento in sei punti.

Documento peraltro contraddittorio: Barack accetta di inviare altri 30mila soldati in Afghanistan, ma, precisa, «tutto deve essere fatto per essere concentrati sull’obiettivo di poter ridurre la nostra presenza, perché questo è nel nostro interesse nazionale». Come dire: combattiamo, ma poi via. Poi, però, l’Obama che apparentemente picchia i pugni sul tavolo stenta a fissare una data per il ritiro definitivo, limitandosi a indicare che nel luglio 2011 i primi contingenti cominceranno ad andarsene. Alla fine fa proprio quel che gli dicono i consiglieri militari con cui, perlomeno secondo l’edulcorata versione di Woodward, avrebbe litigato.

L’impressione complessiva è di un presidente debole, titubante, poco rispettato dai suoi uomini, che litigano scambiandosi epiteti pesantissimi. Vedi il vice presidente Joe Biden che definisce l’inviato Holbrooke «il bastardo più egoista che abbia mai incontrato» o il ministro della Difesa Robert M. Gates che considera il numero della Sicurezza nazionale, Thomas E, Donilon, un inetto totale.Il libro di Woodward si limita a precisare indiscrezioni già uscite e svela poche vere novità. Una su tutte: in Afghanistan opera «un esercito nascosto» della Cia, composto da 3.000 uomini, per lo più afgani, che catturano e uccidono talebani e cercano di conquistare il sostegno popolare. Niente male per un presidente che ha ricevuto, sulla parola, il Nobel per la Pace.

Un presidente che, come Bush, ha creato, perlomeno in politica estera, un governo nel governo, composto dallo spin doctor David Axelrod, dal consigliere alla sicurezza nazionale James L. Jones, dallo stesso Rahm, dal portavoce Robert Gibbs, dagli esperti di sicurezza Denis McDonough e Mark Lippert. Alla Casa Bianca alcuni lo chiamano il Politburo, altri la Mafia.

Marcello Foa.

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Neri!

Ottimo libro, dalla considerevole mole avente ad oggetto il fenomeno neofascista dal 25 luglio ’43 fino ai giorni nostri. Gli autori, pur non essendo evidentemente dei simpatizzanti, riescono a mantenersi ritti lungo il difficile crinale dell’obiettività lasciandosi andare ogni tanto a qualche scivolamento tutto sommato accettabile per un testo di 600 pagine. Un susseguirsi di sigle e fatti più o meno rilevanti che comunque hanno il merito di mettere in luce un fenomeno importante nella storia repubblicana solitamente offuscato dall’attivismo armato “rosso”.
Consigliato.

Il caffè di Sindona.

Un altro interessante libro edito da Garzanti su Michele Sindona, ultimamente molto citato anche a causa delle sfortunate dichiarazioni del senatore a vita Giulio Andreotti sull’avv. Giorgio Ambrosoli.
I due autori non compiono una panoramica sulla vita del finanziere siciliano ma concentrano la propria analisi sugli ultimi giorni di vita del protagonista, cercando di fare chiarezza sul dilemma “suicidio o omicidio”. La tesi sostenuta nel libro propende nettamente per la prima ipotesi e viene motivata con una serie di accurate spiegazioni circa il funzionamento del carcere di Voghera dov’era detenuto Sindona.
Sindona si sarebbe suicidato e questo rientrerebbe perfettamente nella psicologia del personaggio.
In effetti c’è da dire che il caffè al cianuro è particolarmente amaro…

Jimi Hendrix, un’agonia fra lampi di genio

Due settembre 1970, Vijle Ruskow Hall, Harus, Danimarca. L’uomo è quasi accovacciato sul palco, sfibrato, assente; dalla sua chitarra escono note folli, metalliche che lui non riesce a controllare; attacca con Freedom ma all’improvviso cambia tema, poi s’interrompe e riparte miracolosamente. Inanella Come On e Room Full of Mirrors rincorso dal basso di Billy Cox, in piedi per scommessa dopo un micidiale cocktail di droghe «tagliate male». A metà di Message of Love arriva al capolinea e collassa. Qualcuno lo sente dire con un filo di voce: «sono morto da tanto tempo». È il punto più basso degli ultimi 15 giorni di vita di Jimi Hendrix. «Non aveva mai raggiunto prima un simile livello di esaurimento fisico», scrive Davide Henderson nella nuova edizione della biografia hendrixiana Scusami sto baciando il cielo in uscita in questi giorni. «Il tuo amico Hendrix non riusciva a muoversi – urlò al telefono l’organizzatore dello show all’amica e biografa di Jimi, Sharon Lawrence -, inciampava continuamente, era incapace di fare un concerto. Perderò la camicia se non si presenta a Copenaghen domani, e la sua carriera sarà finita». Ma non è ancora la fine. A Copenaghen il leone ruggisce come nessuno s’aspetta: sfibrato, depresso, sfatto il giorno prima, sale sul palco in piena forma e trova persino la forza di fare un bis. «L’ottovolante ha ripreso a correre», titola The Times. E poi un ultimo colpo di coda sull’isola di Fehmarn, in uno show funestato dal maltempo e dai saccheggi di un gruppo di motociclisti tedeschi; Jimi si esibisce in fretta e furia ma si prende l’ultima (piccola) rivincita: parte tra bordate di fischi e «Go Home» e – grazie a Killing Floor e Voodoo Chile – chiude tra gli applausi.

Il mito dei concerti di Hendrix si spegne così, su una fredda isola tedesca. Fallito il rilancio cominciato la settimana prima allo storico show dell’Isola di Wight. Un concerto controverso, in cui la sua debolezza fisica fa da contrasto alla potenza dei suoni elettrici più assurdi mai usciti da una chitarra. God Save the Queen e la beatlesiana Sgt.Pepper si trasformano in inni alla follia, Machine Gun è l’eruzione di un cervello che ha perso il controllo; è lui che impazzisce, suona quasi privo di coscienza, e le note sono un picco vibrante che cresce ad onde repentine. Anche la tecnologia congiura contro di lui; le interferenze delle trasmittenti del servizio d’ordine negli amplificatori lo mandano ulteriormente fuori di testa. «Servizio d’ordine… venite avanti… come va lì?», sente in risonanza con la chitarra, e perde il ritmo, mentre la batteria di Mitch Mitchell quasi si ferma. Panico. Jimi ha un ghigno satanico e pesca chissà dove l’energia per cantare sovratono, quasi singhiozzando, All Along the Watchtower, il diavolo gli viene in aiuto scambiando la sua anima con il blues di Red House, con rumori allucinati che sembrano spezzare il muro del suono. E lui avanti, automa fra gli applausi, a chiudere (finalmente) con In From the Storm, ultimo lampo prima del crollo. «Si sentiva come un pugile che cerca di stare in piedi chiedendosi quale potrà essere il risultato. Veli di depressione si spargevano sulla sua coscienza, simili alla nebbia dell’alba che stava invadendo l’arena», commenta poeticamente Henderson. In effetti è un’agonia. Che differenza rispetto ai concerti di pochi mesi prima. A Berkeley per esempio (dove fu girato il film Jimi Plays Berkeley), dove ogni brano è prototipo e al tempo stesso archetipo del rock!
Pochi giorni dopo Jimi morirà, ma sarà solo una morte biologica: lui è ancora un mito, un figlio spurio di quell’America che ha abbracciato e distrutto straziandone l’inno nazionale, ancora un ribelle eppure una vittima dell’«industria del caro estinto», di cui è la star più sfruttata insieme ad Elvis. I duri e puri lo celebrano visitando all’Haendel Museum la mostra Hendrix In Britain (a Londra dall’altro ieri al 7 novembre) dove, a 40 anni dalla morte, sono esposte memorabilia e curiosità (dalla Gibson V5 che usò a Wight ai manoscritti delle canzoni agli abiti che persino la Londra beat aveva visto soltanto nei film di Errol Flynn). Jimi dal ’68 abitò in questa piccola casa di Brook Street dove fino al 1759 visse lo stesso Haendel. («Spesso, guardandomi nello specchio, vedevo il suo spirito che vegliava su di me e ascoltavo il Messiah», diceva Jimi). Dal lato artistico (a cavallo tra interesse e sfruttamento) la famiglia, più ingorda che mai, sta per ripubblicare Blues con aggiunta di un dvd, le BBc Sessions con inediti !?! e duetti con Stevie Wonder e altre curiosità, il quadruplo West Coast Seattle Boy e un EP di canzoni natalizie. Tanto per raschiare ancora il barile.

Antonio Lodetti

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