Month: febbraio 2012

Lo strano caso del colonnello Varisco

– Antonio Varisco nasce a Zara il 29 maggio 1927. Tenente-colonnello dei Carabinieri è comandante del nucleo traduzione e scorte del tribunale di Roma. Muore nel 1979 a seguito di un attentato terroristico attribuito alle Brigate Rosse. E’ insignito della medaglia d’oro al valor civile alla memoria.

– Simpatico, allegro, affabile, il colonnello Varisco è particolarmente apprezzato dai cronisti romani. Il suo ruolo lo porta sovente ad avere contatti con loro. Un gentiluomo per tutti, ma un torturatore per i brigatisti che lo crivellano con 18 colpi di fucile a canne mozze. Varisco viene ucciso alle 8,25 del 13 luglio mentre con la sua Bmw percorre il lungotevere Arnaldo Da Brescia. Attentato pianificato e realizzato in fretta ai danni di un uomo che si apprestava a lasciare l’Arma per dedicarsi alla sicurezza di Farmitalia.

– Varisco sarebbe dunque stato ucciso dalla colonna romana. Il suo nome è in una lista di possibili obiettivi trovata nel covo di viale Giulio Cesare dove vengono catturati Adriana Faranda e Valerio Morucci. Il colonnello è presente a molti processi contro le BR e i NAP ed è lui che si occupa delle traduzioni e della sicurezza in tribunale.Varisco arresta Vito Miceli, capo del SID.

– I brigatisti rivendicano più volte l’azione usando un frasario particolarmente macabro. Ma il condizionale è d’obbligo per una vicenda che rimane avvolta da non poche ombre. Prima di tutto sono le armi usate ad essere particolarmente inusuali. Pallettoni e fucile a canne mozze paiono essere più adatti a un commando mafioso che a uno brigatista. Così come l’uso di motociclette/auto (le fonti divergono in tal senso) e di bombe fumogene marca Energa per coprire la fuga. Antonio Savasta, capo della colonna romana, si prende la responsabilità dell’omicidio così come Rita Algranati [clicca] che dichiarerà di aver partecipato al delitto.

– Le indagini della procura romana, accreditando la versione di Savasta e compagni, ritengono le Br romane responsabili dell’omicidio sia come mandanti che come esecutori.

– L’attività professionale di Varisco lo porterà a imbattersi in alcuni importanti casi: lo scandalo Lockheed, quello dell’Italcasse, La Rosa dei Venti e quello relativo ad una loggia massonica segreta poi comunemente denominata P2 (indagine che porterà il colonnello a indagare alcuni superiori, per esempio il generale Santovito, capo del SISMI, il servizio segreto militare). A incaricare Varisco di questi accertamenti sarà il giudice Vittorio Occorsio poi ucciso da Pierluigi Concutelli ex esponente di Ordine Nuovo (movimento neofascista sciolto nel 1973 dal ministro degli interni Paolo Emilio Taviani).

– Il nome di Varsico ricorre naturalmente anche nell’affaire Moro. Il colonnello ha un ufficio presso Piazza delle Cinque Lune nel quale si incontra con un altro ufficiale dei carabinieri (forse Dalla Chiesa) e Mino Pecorelli: quest’ultimo proprio in quei giorni pubblica sul suo giornale Op parti inedite del memoriale Moro ripromettendosi di fare ulteriori rivelazioni nelle settimane successive (non farà a tempo: sarà ucciso da un commando i cui componenti non sono mai stati identificati). Pecorelli e Varisco si conoscono e hanno modo di incontrarsi più volte nei giorni del sequestro dello statista democristiano. Strana coincidenza che i tre protagonisti di questa storia siano morti tutti in modo violento: Pecorelli e Varisco nel 1979 a Roma, Dalla Chiesa nel 1982 a Palermo.

Giovanni Senzani, L’Ambiguo.

Nasce a Forlì il 21 novembre 1942.

– Criminologo ed esponente di primo piano delle Brigate Rosse è ricordato soprattutto per la barbara esecuzione ai danni di Roberto Peci, fratello di Patrizio uno dei primi “pentiti” delle BR.

– Entra per la prima volta in una indagine sulle BR nel 1978, a seguito di una sua telefonata (intercettata) nella quale chiede notizie di un brigatista ferito. Viene quindi arrestato ma rilasciato subito: appena libero entra in clandestinità e ci rimarrà fino al gennaio del 1982 (arresto definitivo).

– Da clandestino progetta con l’altro leader storico delle BR Mario Moretti il sequestro di Giovanni D’Urso, della direzione generale degli istituti di prevenzione e pena. Dopo l’arresto di Moretti si determina una scissione nelle BR: da una parte l’ala militarista (a guida Savasta) dall’altra quella movimentista (a guida Senzani). Molto spiccata l’attenzione al mondo carcerario dell’ala senzaniana.

– Altra caratteristica peculiare del Partito Guerriglia di Senzani è l’interessamento per quegli strati proletari ai limiti della legalità: in questo contesto si sviluppa il rapimento dell’assessore democristiano Ciro Cirillo.

– Sotto la sua gestione avviene il già citato rapimento di Roberto Peci, ucciso dopo lunga detenzione e “processo proletario”. L’esecuzione (11 colpi di arma da fuoco) viene filmata, così come l’interrogatorio dello sfortunato operaio.

– Senzani viene arrestato il 9 gennaio del 1982. Nel 1999 ottiene la semilibertà. Tornato a Firenze cura il coordinamento editoriale di una casa editrice. E’ definitivamente libero dal febbraio 2010 (“I giudici hanno potuto constatare che sono una persona cambiata e infatti hanno sentenziato l’estinzione della pena. Sono stato in galera 23 anni. Ho riconosciuto i miei errori davanti al Tribunale di sorveglianza. Ora sono un uomo libero. La politica l’ho abbandonata da un pezzo, ma non le mie idee di sinistra”)

– A marzo e giugno del 2000 la commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi presieduta da Giovanni Pellegrino ascolta due magistrati fiorentini secondo i quali Senzani sarebbe stato brigatista già nel secondo semestre del 1977 (prima del rapimento Moro). Strana convinzione dato che tutti, “pentiti” compresi, giuravano che Senzani fosse entrato nella organizzazione solo dopo il sequestro dello statista democristiano. Ma i sospetti crebbero quando qualcuno rivelò a Pellegrino una possibile consulenza di Senzani col ministero dell’interno. Pellegrino pensò di aver capito male dato che la consulenza conosciuta era quella col ministero di grazia e giustizia. E invece giunsero altri indizi: Senzani avrebbe fornito consulenze a qualcuno del Viminale che in cambio gli avrebbe girato notizie sui progressi investigativi in Toscana. Cominciò quindi a delinearsi il sospetto che, durante il sequestro Moro, qualcuno all’interno delle BR fosse tenuto informato sulle indagini svolte contro i terroristi stessi.

– Quando fu poi sgominata la colonna toscana delle BR, un funzionario DIGOS avrebbe riconosciuto in Giovanni Ciucci il brigatista che si incontrava con Senzani durante il periodo del sequestro Moro. Questi incontri si sarebbero svolti, quindi, nel cosiddetto periodo “insospettabile” nel quale lo stesso Senzani faceva ancora il consulente per le istituzioni. A Pellegrino balenò il sospetto che per qualche motivo si fosse postdatata l’appartenenza di Sensani alle BR: d’altronde è sempre stata sospetta la fulminea carriera del criminologo in seno all’organizzazione. Lo stesso Pellegrino precisa comunque che dopo tanti anni di indagini “nulla è emerso su questa ipotesi”.

– Senzani e il caso Cirillo
“Senzani mi apparve con un maglione rosso addosso, si accovacciò a terra ed entrò subito in argomento: tu c’hai i soldi?” (Cirillo nel maggio 2008 a Giovanni Minoli ricordando il suo sequestro, la trattativa e la liberazione in cambio di un riscatto di un miliardo e 450 milioni).

– L’unico brigatista che non parla
“Per me Senzani potrebbe essere chiunque. Un pazzo. Un estremista della peggior specie. Qualcuno ha parlato anche di servizi segreti. Non so davvero come definire Senzani. Sicuramente in una certa fase, direi dalla fine del 1980 al suo arresto, ha dimostrato di essere uno dei pochi cervelli delle Brigate rosse” (Alberto Franceschini). A distanza di anni, ormai da tempo fuori dal carcere, Giovanni Senzani resta il brigatista più anomalo, forse l’unico a non aver mostrato per intero il suo volto. A oltre un quarto di secolo dalla sua cattura, è proprio Senzani l’unico brigatista di rilievo che non abbia mai accettato interviste e che si sia sempre sottratto a qualsiasi dichiarazione [Baldoni-Provvisionato 2009]

– Senzani ottiene una laurea in legge a Bologna, sul finire degli anni 60, ed in più una borsa di studio CNR per una ricerca sulla condizione del carcere minorile di Ancona. E’ proprio il risultato di questa ricerca, pubblicato dal settimanale L’Espresso nel maggio 69, a spingere la commissione d’inchiesta sulla condizione minorile a convocarlo in qualità di consulente. E’ qui che il futuro brigatista comincia ad entrare in un’ottica di collaborazione istituzionale. Partecipa in qualità di criminologo a numerosi convegni nazionali ed internazionali ai quali sono presenti uomini delle istituzioni a vario livello.

– NEI PIANI DI SENZANI IL LANCIO DI MISSILI CONTRO IL MINISTERO DELLA GI
15 agosto 1984 — pagina 14 sezione: CRONACA

ROMA – Le Brigate rosse progettarono di lanciare un missile contro il ministero di Grazia e Giustizia, in via Arenula. L’ ordigno, sparato da un veicolo, doveva penetrare attraverso una finestra nel salone occupato dal ministro, che all’ epoca era Clelio Darida. E’ questo uno dei piani “inediti” delle Br resi noti ora dalla sentenza-ordinanza con la quale il giudice istruttore Rosario Priore ha chiuso l’ istruttoria “Moro-ter”, depositata lunedì in cancelleria. L’ ideazione dell’ attentato al Guardasigilli risale alla fine del 1981 e fa parte di un progetto che avrebbe dovuto segnare il rilancio del terrorismo brigatista. Sono di quell’ epoca la rivolta nel carcere di Trani, l’ assassinio del generale dei carabinieri Enrico Galvaligi, il sequestro del magistrato Giovanni D’ Urso. L’ offensiva delle Br doveva completarsi con una strage da compiersi a palazzo Don Sturzo, all’ Eur, la sede della Dc, in occasione della riunione del consiglio nazionale, e con l’ attentato contro il ministero di Grazia e Giustizia. Del primo fatto se ne parlò a lungo, dopo la scoperta di due missili del tipo “terra-aria” trovati nel covo di via Nespoli a Centocelle, l’ 11 gennaio del 1982. Ideatore del piano sarebbe stato il professor Giovanni Senzani, leader dell’ ala movimentista delle Br, che fu arrestato proprio nella base di Centocelle. Per mettere in pratica le sanguinose imprese, avrebbe chiesto l’ aiuto di un esperto, il giornalista francese Jean Louis Baudet, il cui nome figura tra i pochi imputati per i quali è stato chiesto lo stralcio. Il francese era pratico di armi, avendo combattuto in Libano nelle fine palestinesi. Baudet avrebbe costruito, per i missili in possesso delle Br, delle leggere rampe di lancio che potevano essere sistemate su camioncini. Per l’ attentato contro il ministero, il missile sarebbe stato lanciato da via San Bartolomeo De’ Vaccinari, una stradina trasversale a via Arenula, che sbocca proprio dinnanzi all’ edificio. Per la strage a palazzo Sturzo erano state studiate due ipotesi: la prima prevedeva per l’ appunto il lancio dell’ ordigno da un veicolo, la seconda, invece, fissava come base il “Fungo” dell’ Eur, l’ alta costruzione che domina la zona e che fino a qualche anno fa ospitò un ristorante alla moda. Oltre alla “consulenza balistica” Baudet avrebbe studiato con Senzani un piano per aiutare finanziariamente la lotta armata nel Terzo mondo. Le Br si sarebbero procurate il denaro con i sequestri di persona. (Fonte: Archivio La repubblica)

Circa i rapporti tra BR, Senzani, Baudet e la scuola di lingue Hyperion è molto interessante il libro CHI MANOVRAVA LE BRIGATE ROSSE (Clicca per leggere una breve recensione)

 

Cari ladri potete dormire sonni tranquilli (per ora).

In questi giorni i quotidiani (quasi coordinati da una specie di mano invisibile) stanno compiendo una riflessione “storiografica” sulla vicenda Mani Pulite. Ci si chiede che cosa rimanga della più grande operazione politico-giudiziaria compiuta dalla magistratura italiana. La domanda è legittima, visto che il malaffare pare essere diffuso più che mai nei rapporti tra la pubblica amministrazione e l’imprenditoria, tra la politica e gli affari.

Non c’è dubbio che con Tangentopoli (neologismo coniato in ambienti giornalistici) si sia chiusa un’era politica – la cosiddetta prima repubblica – e se ne sia aperta un’altra paradossalmente peggiore. Le speranze di rinnovamento che tanti avevano riposto nell’azione della magistratura e nella possibilità di un rinnovamento politico sono andate in gran parte deluse. Vent’anni perduti, tra privatizzazioni truffa, mancanza di politiche industriali e di sviluppo, sterili contrapposizioni, precarizzazione del lavoro, scelte internazionali folli come quella dell’entrata nell’euro.

Tangentopoli è il risultato della fine della guerra fredda e della caduta del Muro di Berlino. Non è infatti pensabile che prima del 1992 la classe politica non rubasse. Rubavano tutti quelli che hanno avuto responsabilità politiche a livello nazionale e locale, compresi le formazioni politiche uscite miracolosamente indenni dalle inchieste. Nessuno però ebbe l’ardire di compiere – diciamo negli anni 70 – una operazione come quella realizza da Di Pietro & co. Non ce ne sarebbe stata la possibilità, né sotto il profilo interno né soprattutto sotto quello internazionale. Qualcuno ebbe la tentazione: pensiamo allo scandalo Lockheed con l’Aldo Moro del “non ci faremo processare nelle piazze” oppure agli incredibili maneggi di Michele Sindona e la famosa lista dei 500… a parte l’incriminazione di qualche personaggio minore non successe assolutamente nulla. Nessuno poteva prendersi la responsabilità di distruggere -in piena guerra fredda- i partiti di governo per provare a mettere al loro posto i comunisti. Sarebbe saltato il banco con la conseguenza di aprire le porte ad una dittatura militare sul modello cileno (appoggiata dagli americani).

Negli anni 70 e nella prima metà degli anni 80 la magistratura era poi impegnata nell’opera di repressione dei moti eversivi di destra e di sinistra che minacciavano (spesso avvalendosi di agganci interni ed esteri) le istituzioni repubblicane.

E’ lecito ritenere comunque che se il Muro fosse caduto dieci anni dopo Mani Pulite non ci sarebbe stata. Non per mancanza di condizioni “giudiziarie” ma per mancanza di quelle “politiche”. Chi non contestualizza gli eventi sotto il profilo storico e politico si limita ad una visione giudiziaria delle vicende che a mio parere è assolutamente fuorviante.

Ma una domanda appare particolarmente interessante: ci sono le condizioni per una nuova Mani Pulite? Sotto il profilo giuridico e giudiziario certamente sì, nel senso che non passa giorno senza che qualche magistrato incappi in condotte che possono essere qualificate normativamente come reati. Sotto il profilo politico c’è da avere dei dubbi, in un momento in cui i partiti maggiori sembrano andare d’amore e d’accordo nel garantire la maggioranza al governo tecnico presieduto da Mario Monti. Un governo, occorre non dimenticarlo, fermamente voluto e sostenuto dal capo dello stato, dall’Europa e da poteri forti a carattere sovranazionale. Per certi versi si stanno riproponendo le medesime condizioni degli anni della guerra fredda quando la collocazione internazionale dell’Italia non permetteva fughe in avanti. Bisogna vedere quanto durerà questa situazione e per quanto tempo sarà possibile mantenere intatto il vaso di Pandora. C’è da pensare che non appena sarà passata la buriana dei mercati internazionali si scatenerà una nuova ondata di inchieste giudiziare tale da mandare a casa (o in galera) la cosiddetta classe politica che ha malgovernato l’Italia in questi ultimi 20 anni (il tutto ovviamente con una opinione pubblica plaudente ma incapace di generare alternative politiche credibili).

Tunnel – Eroina

In tema di drug-movie italiani non si può certamente far finta di niente di fronte a questo film di Massimo Pirri (anno 1980), piccola misconosciuta chicca che si avvale di un cast da non sottovalutare (Helmut Berger, Corinne Clery e Franco Citti).
Si tratta di una sorta di anticipazione del più celebre Amore Tossico con la differenza che qui l’esito neorealistico è tutt’altro che scontato, sia per la struttura narrativa che per l’uso di attori professionisti.
Ci troviamo di fronte a un film che repelle e incuriosisce, essendo in grado di scandagliare bene un certo “humus” sociale diffuso nei primi anni Ottanta. I protagonisti non sono certo i ragazzi del film di Caligari, ma maturi ultratrentenni alle prese con la tossicodipendenza da eroina: consumatori di vecchio conio, con una vita alle spalle, senza quella latente ingenuità che caratterizzava Cesare & co. nel più conosciuto Amore Tossico.

Il protagonista Marco (Berger) è reduce da un matrimonio fallito e proviene da una famiglia benestante che cerca in tutti i modi di salvarlo: il suo livello sociale è dunque più elevato rispetto ai giovani proletari di Amore Tossico e le possibilità di reinserimento sociale più concrete sia per il possesso di un titolo di studio che gli consentirebbe di tornare a insegnare. Per Marco ci sarebbe anche la possibilità di avvalersi di legami familiari che nel film di Caligari sono completamente recisi.

Peccato che Marco/Berger non sembri intenzionato a redimersi; la cosa appare evidentissima già dal breve prologo (condito da una “pera”) che dà inizio al film: uno “spiegone” iniziale che dà il “la” al film e illustra la visione sociologica del protagonista e la repulsione per qualsiasi tipo di giudizio che lo riguardi.

La compagna di droga è la già citata Corinne Clery (Pina), qui in gran forma. Una scelta indubbiamente azzeccata perché l’attrice francese sembra entrare bene nella parte. La Clery ha una ruolo fattivo nel film: coltiva ambigui legami con la polizia, qualche volta si prostituisce (come lo stesso Berger) per ottenere i soldi delle dosi o per poter accedere all’eroina posseduta da qualche suo spasimante, fino a intrattenere rapporti con ragazzini. E’ un po’ l’esca che Marco/Berger utilizza per tirare avanti.

Il terzo personaggio è quello interpretato da un cattivissimo Franco Citti (tagliato per ruoli di questo tipo) spacciatore locale che con la sua gang tiranneggia senza alcuno scrupolo il trio di sbandati (c’è anche Marzio C.  Honorato), accampati in una sorta di “comune” alle porte di Roma.

Marco è un personaggio squallido, non suscita alcuna pietà nello spettatore: cinico e  pervertito, la sua personalità esclude lo scrupolo. Il prossimo ha un valore solo se utilizzabile per i propri scopi. Usa economicamente la moglie, usa la propria compagna di droga, usa persino se stesso quando arriva a fare il gigolò per uomini. Una scintilla di umanità la si riconosce solo verso la fine del film di fronte a una tragica morte e alla indecisione se smettere o meno con l’eroina.

La Clery, trasgressiva, ci regala una “puntura” shock che ovviamente, a beneficio di chi non avesse visto il film, non è qui opportuno rivelare.

Anche in TUNNEL la storia si sviluppa a “mosaico” come per Amore Tossico ma il percorso è più coerente e razionale e anche la conclusione, appena accennata, lascia intuire l’esito drammatico di una vicenda esistenziale.

Molto azzeccata la musica tratta dal primissimo omonimo album dei Pretenders (sempre del 1980) che condisce adeguatamente il film sposandosi perfettamente con le vicenda narrata.

Titolo consigliabile per gli appassionati del cinema di genere italiano e del sottogenere drug.

Celentano il Reazionario.

La rassegna sanremese, giunta alla ennesima edizione, non si caratterizza certo per il particolare livello delle canzoni quanto per le polemiche che poco hanno a che vedere con lo spettacolo canoro puro e semplice. Purtroppo per i fan del Festival questo si ripete da troppi anni: probabilmente se ne saranno già fatti una ragione. Grande attenzione hanno invece riscosso le prevedibili provocazioni del Molleggiato 74enne Adriano Celentano, privilegiato di un cachet che ha fatto storcere il naso a tanti (invidiosi) in tempi di crisi.

Prima di tutto c’è da dire come in questo caso operino meccanismi di mercato che ben poco hanno a che vedere con valutazioni etiche o di opportunità: se Celentano piace alla gente è giusto che il cosiddetto servizio pubblico ne prenda atto e gli dia il compenso che merita. Allo stesso tempo Celentano non ha alcun motivo di doversi scusare (ripromettendosi dubbie donazioni ad enti caritatevoli) o purgarsi della “colpa” di essere profumatamente pagato per fare ciò che sa fare meglio di altri. Non c’è da chiedere scusa né per il merito, né per la professionalità, né per la popolarità acquisita in tanti anni di carriera. Inoltre la beneficenza, per essere davvero a favore degli altri e non di se stessi, dovrebbe essere fatta in rigoroso silenzio: altrimenti si trasforma in un ennesimo spot “pro domo propria”.

Ma si sa bene come in Italia parlare di denaro equivalga sempre a compiere un mezzo passo falso. Celentano, dal canto proprio, è ben consapevole dell’importanza dell’umore popolare e fa di tutto per non urtarlo. In tal senso possono spiegarsi le sue innumerevoli giravolte in campo ideologico, politico, religioso. Sotto l’aspetto economico è stato abile a disinnescare l’interesse morboso sul suo compenso con la trovata della devoluzione in “beneficenza”.

Ma è un aspetto del suo lungo monologo di martedì (quasi 1 ora) a meritare attenzione: l’attacco ai giornali cattolici e alla Chiesa. Anche qui ha dimostrato di ricercare il facile consenso, o almeno il consenso facile delle minoranze rumorose. I cosiddetti “laicisti”, un tempo definiti semplicemente anticlericali, lo hanno applaudito così come buona parte degli “amorfi” (i tanti che vedono da che parte spira il vento per schierarsi). I cattolici veri o quelli che tendono a storcere il naso di fronte a certe estremizzazioni tacciono, compiendo atto di autocensura preventiva.

La dichiarazione di Celentano sulla necessità di “chiudere definitivamente Famiglia Cristiana ed Avvenire” è sbagliata sotto tutti i punti di vista. Si tratta di una grande castroneria nella quale però si percepisce il “genio” di chi sa beneficiare anche delle sciocchezze che dice.

I giornali non si chiudono. Non si tifa, né si dovrebbero compiere atti, per chiudere la bocca a chi non la pensa come te. Ovviamente qui è uscito fuori il vecchio Celentano, quello reazionario, profondamente “populista”, che si salda con quella parte di opinione pubblica che pur dichiarandosi “democratica” chiuderebbe volentieri la bocca ai propri avversari o semplicemente a chi dissente. Peccato non basti farsi paladini dei diritti degli animali, degli omosessuali o essere contro la fame nel mondo o professarsi a favore della moratoria contro le mine antiuomo per essere dei democratici. Tanto è vero che spesso tra costoro si nascondono dei veri e propri talebani incapaci anche solo di discutere lealmente.

Si parla della libertà di Celentano a dire ciò che gli pare: concetto sacrosanto, sancito da un contratto. A tale proposito appaiono ridicole le manfrine per condizionarlo. Ma lo stesso Celentano non può invocare la libertà per se stesso salvo poi sponsorizzare la chiusura delle bocche altrui.

Amore Tossico.

In una Roma anni 80 che non è più quella dei film di Verdone e Tomas Milian si colloca la storia di un gruppo di ragazzi alle prese con la dipendenza da sostanze stupefacenti. I protagonisti sono Cesare e Michela, legati da amore reciproco ed anche da un comune sentire verso “le sostanze”: accanto ai due troviamo un corollario di figure più o meno coetanee accomunate dalle identiche condizioni di tossicodipendenza.

Amore Tossico è un film senza fronzoli e sceneggiatura, di conseguenza assume la dimensione documentaristica. In effetti laddove il regista Claudio Caligari interviene -volendo dare il proprio contributo alla storia- il risultato è quasi quello di rovinare una pellicola che ha il merito di tratteggiare fedelmente la giornata tipo del drogato-borgataro dei primi anni 80.

Non c’è bisogno di nient’altro se non di una telecamera e di una sufficiente perizia tecnica per raccontare storie come queste, dove i protagonisti sono drogati veri con nel viso e negli occhi (oltre che nel parlare strascicato) le tracce della propria condizione.

Particolarmente azzeccata la scelta del protagonista, quel Cesare Ferretti (Cesare anche nel film) che probabilmente avrebbe potuto proseguire nel cinema per l’intensità espressiva e la capacità di entrare nel ruolo senza alcun tipo di inibizione nei confronti della telecamera. Cesare è la figura preminente del film, disperata e carismatica, capace di esprimere tratti di umanità, simpatia e attaccamento ai valori dell’amicizia e dell’amore. Cesare è tutto sommato una figura per la quale si parteggia: non è un cinico né una carogna. E’ solo una vittima della sua debolezza. E’ uno che ha preso una strada sbagliata dalla quale è difficile, se non impossibile, tornare indietro.

La sua ragazza, Michela, ha condiviso con lui l’ingresso nel mondo della droga: prima con le anfetamine e la cocaina poi con sostanze di segno opposto (l’eroina). Sotto questo profilo il film ricorda fedelmente il processo di diffusione delle sostanze stupefacenti a partire dagli anni 70 in Italia e a Roma in particolare. Michela prendeva la cocaina assieme a Cesare e sentiva “i motorini”. Cesare guida Michela, le prepara le dosi e le dà i consigli per non farsi prendere dal panico dopo averle assunte.

Alla coppia principale (da qui il titolo di Amore Tossico, per l’appunto) si muovono le altre figure che compongono la “cricca”: c’è Ciopper che si sente solo e cerca di sedurre in tutti i modi (per quel poco che può fare, considerate le sue condizioni) la bella dottoressa del SERT presso il quale assume il metadone. Ciopper è quello che ha ancora dei flebili interessi, piuttosto “primordiali”, che l’eroina non ha ancora completamente cancellato: è quello capace di spendere i soldi accantonati per lo “schizzo” per l’acquisto di un gelato (con la conseguente riprovazione degli altri) ed è quello che ha ancora la forza e la voglia di pensare alle belle “pischelle” che in una Roma estiva non possono mancare.

C’è Massimo, uscito da poco di galera, col quale Cesare ha fatto delle rapine di “autofinanziamento”: egli pensa solo alle dosi ed è tutto sommato una delle figure che più fa tenerezza. Si intuisce che non è uno scemo, che potrebbe fare cose interessanti nella vita ma che ha buttato via tutto. C’è poi Enzo, una sorta di tramite tra la coppia Cesare-Michela ed il resto del gruppo (anch’egli un ragazzo con uno spiccato senso dell’amicizia ma oramai completamente obnubilato dalla droga). C’è Loredana, la più carina del gruppo, sempre in “ruota” e sul filo della prostituzione non avendo più i mezzi per poter comperare le dosi…

Insomma, un mondo di disperazione e dipendenza non privo di tratti nei quali emergono i valori più veri per i quali è giusto vivere: l’amore e l’amicizia. Il primo lega Cesare e Michela, la seconda tutti i membri del gruppo (mai verrà meno in tutto il film).

La caratteristica di questa pellicola è quella di rappresentare una storia “chiusa” dove gli interventi da parte del mondo esterno non esistono o sono destinati ad avere effetti “totalizzanti” (soprattutto nel finale un po’ affrettato). E’ una storia di drogati, tossici che conoscono e frequentano solo altri emarginati: spacciatori, papponi, artisti tossicomani, deviati in “ruota”… Un circolo vizioso dal quale è impossibile uscire.

Il film si sviluppa bene con una struttura “a mosaico” dove tanti piccoli episodi si legano l’uno all’altro per dare come risultato una pellicola verità (o un vero e proprio documentario) più efficace di tante inutili prediche sul mondo della droga. Sceneggiatura non ce n’è, come già specificato sopra: basta limitarsi alla narrazione di alcune giornate “tipo” dell’eroinomane proletario romano dei primi anni 80 per avere come risultato “Amore Tossico”.

Il finale è il vero punto debole del film: poteva forse avere un senso nel caso in cui non fossero state tagliate le scene sulla detenzione del protagonista (con annessi maltrattamenti in carcere, una sorta di anticipazione del caso Cucchi). Sotto questo aspetto sarebbe stato meglio astenersi da interventi che in definitiva stonano un po’ con la forza narrativa e direi SOCIOLOGICA di Amore Tossico.

Una ultima nota per le musiche di Mariano Detto: minimalistiche, approssimative ad un primo ascolto, ma poi capaci di accompagnare correttamente le varie scene.

La via della droga

Film del 1977 con Fabio Testi e David Hemmings.

Hong Kong, Amsterdam, Roma, New York. La via della droga, appunto. Ma con Roma a fare da “ponte” per l’America. Uno strano personaggio (Fabio Testi) si aggira per le vie e le acque di Hong Kong alla ricerca di una importante partita di eroina da smerciare sul mercato europeo. Tra insospettabili vecchiette e adepti di templi buddisti raccoglie la droga e parte alla volta di Roma nella speranza di incontrare il suo “contatto”, esponente di una grande organizzazione dedita allo spaccio di stupefacenti tra l’Europa e gli Stati Uniti. Ma all’aeroporto romano qualcosa va storto. Un cane dell’antidroga si mette ad abbaiare ed il piano di Fabio(questo il suo nome anche nel film) va a rotoli. Alla scena assiste un poliziotto americano (David Hemmings) di stanza nella capitale italiana per provare a interrompere un grosso canale che sfocia negli Usa. Il suo nome è Mike Hamilton: si muove in maniera disinvolta e ha una pericolosa tendenza ad umiliare i colleghi italiani. Mike interroga Fabio e dopo una mezza collutazione lo fa sbattere dentro.
Qui avviene l’incontro con un giovane drogato (Wolfango Soldati), sempre alla ricerca di una dose ed in perenne crisi di astinenza. Le sue condizioni sono davvero pessime: non solo è stato pestato dagli spacciatori e forse pure dagli sbirri ma è preda dei tremori tipici di chi ha bisogno assolutamente di bucarsi. Intuisce che Fabio può fare qualcosa per lui: gli chiede, in ginocchio, una dose che magicamente si materializza grazie ad una trovata alla James Bond: la scarpa col tacco “portatutto”.
I due riescono a fuggire dalla prigione e a ritracciare degli “amici” del giovane tossico, in realtà uno dei gruppi che controllano il giro della droga a Roma. Costoro vivono in una specie di “comune” che teoricamente dovrebbe essere una compagnia teatrale ma che invece è un vero punto di raccolta per lo spaccio della droga.
Fabio conosce il capo del gruppo, un certo Gianni (Joshua Sinclair), col quale ha un piccolo scambio di idee. I due però si piacciono e pensano di iniziare una collaborazione: Fabio dovrà recuperare una partita di eroina a Genova.
Ovviamente si tratta di una trappola dalla quale riuscirà a salvarsi a colpi di revolver riportando così la droga a Roma.
Durante una irruzione della polizia si genera un furioso inseguimento tra Mike (lo sbirro americano) e Fabio che si conclude in una classica terrazza della Roma popolare. Ed è qui che lo spettatore scopre la vera identità di Fabio: si tratta di un poliziotto sotto copertura, un infiltrato amico di Mike che cerca di arrivare al capo dell’organizzazione che inonda Roma e New York di droga.

Fabio torna dai suoi “amici” criminali e suggerisce un colpo incredibile: andare a prendere la droga laddove più è disponibile, cioè nei depositi della polizia. A tale scopo gli servono un paio di uomini fidati dell’organizzazione, da vestire da poliziotti. Il colpo quasi riesce, se non fosse per un paio di carabinieri che si insospettiscono degli strani movimenti del trio. A questo punto inizia una drammatica sparatoria tra (finti) poliziotti e (veri) carabinieri alla quale parteciperà pure Mark l’americano.
L’azione si dimostra comunque decisiva per la disarticolazione dell’organizzazione dato che dentro i pacchetti di droga era stata preventivamente collocato un segnalatore di posizione(una sorta di GPS ante litteram) che porta la polizia sulle tracce degli spacciatori. Ed è proprio qui che inizia la seconda parte del film, quella d’azione, dove il racket della droga tutto al completo darà la caccia a Fabio per vendicarsi.

A metà strada tra un drug-movie e un poliziottesco La Via Della Droga poteva essere un film ben più interessante rispetto a quanto Castellari sia davvero riuscito a realizzare. Sarebbe forse bastato qualche mezzo in più e uno sforzo maggiore nella scrittura della sceneggiatura per confezionare un’altra perla per un regista che ha abituato i suoi fan a ben altri exploit.
Il film in questione ha infatti il grosso difetto di non scavare sulla psicologia dei personaggi (quasi tutti inesistenti se si esclude forse solo quello di Testi). I mezzi sono pochi e si vede, ben più che in altre occasioni dove le produzioni non sono state particolarmente ricche. In più il mondo della droga è rappresentato in maniera estremamente stereotipata (il giovane ragazzo con le crisi di astinenza e la sua fidanzata che si prostituisce per poi morire di overdose, le botte da parte degli spacciatori, la rapina dal gioielliere che degenera in omicidio ecc…). Le scene d’azione della seconda parte del film (quando Testi viene scoperto dall’organizzazione) sono interessanti ed è proprio qui che si intravede il Castellari migliore. Peccato solo alcune forzature ed esagerazioni nonché la conclusione “aerea” abbastanza ridicola.
Per quanto attiene gli attori Castellari s’affida in buona parte al cast che aveva caratterizzato uno dei suoi film più belli Il Grande Racket: Fabio Testi, Joshua Sinclair e una buona dose di altri caratteristi già presenti nella precedente pellicola (Massimo Vanni e il corpulento Romano Puppo). In più c’è quel David Hemmings -reduce dal successo di Profondo Rosso– attore inglese di grande talento caratterizzatosi per scelte di carriera non proprio consone alle sue potenzialità.
Insomma, il film può essere visto per pura curiosità: non annoia ma non è nemmeno uno di quelli che più si ricorda dell’incredibile filone poliziottesco che ha caratterizzato il cinema italiano fino al 1980. La musica è uno dei pezzi forti di questo titolo ed è firmata dai Goblin.

Il posto fisso logora chi non ce l’ha.

Ha fatto scalpore la battuta del presidente del consiglio Mario Monti, quella sulla “monotonia” del posto fisso: i giovani devono dimenticarselo ed essere pronti a “nuove sfide”.

Francamente sembra di sentire discorsi vecchi di una quindicina d’anni, nel senso che pare di essere tornati indietro a metà anni 90 quando un Monti con molti meno capelli bianchi faceva il commissario europeo alla concorrenza.
Anche allora si diceva che il mondo stava cambiando e che era necessario adeguarvisi abbandonando le vecchie abitudini.

In Italia s’è fatto di tutto per precarizzare il lavoro e bruciare almeno una generazione. Se oggi abbiamo una selva di contratti atipici ciò è dovuto ad una classe dirigente dissennata, la stessa che ora si nasconde dietro il governo “tecnico”. Sono sempre loro: hanno creato il disastro, hanno chiamato i professori per mettere un po’ di ordine e tra un anno e mezzo si ripresenteranno come salvatori della Patria.

L’indice di impopolarità dell’attuale classe dirigente italiana non è mai stato così alto e quando un magistrato va involontariamente a sbattere su qualche vicenda inerente i partiti trova puntualmente un verminaio, un vero vaso di Pandora dal quale non si sa mai cosa può uscire. La magistratura non sembra avere voglia di scatenare l’inferno – una nuova Tangentopoli – ma l’impressione è che ci sarebbero tutte le condizioni in tal senso. Attenzione: non perché i magistrati siano “cattivi” quanto perché la politica in Italia è allo stato terminale (sia sotto il profilo morale che programmatico).

Ebbene, tornando alla battuta di Monti, è chiaro che sussiste una grande differenza tra precarietà e flessibilità (almeno nella consueta accezione europea): la prima è quella che conosciamo tutti per averla provata direttamente o per aver assistito alle vicende private di amici o parenti. La seconda è quella che c’è nei più importanti Paesi europei e che permette a chi ha perso il lavoro di reinventarsi (riqualificandosi) per poi essere reinserito nel processo produttivo.

La precarietà all’italiana è il risultato di una delle tante “riforme a costo zero” che la nostra cosiddetta classe dirigente ha sostenuto ed avallato in questi anni (assieme ai media “fiancheggiatori”). La flessibilità “sana”, all’europea, sarebbe costata (in formazione e riqualificazione, in sussidi mensili per chi ha perso il lavoro in attesa di trovarne uno nuovo, in uffici di collocamento davvero efficienti).

Nell’attuale panorama di proposte di riforma la più convincente sembra essere quella del sen. Ichino (la cosiddetta “flexsecurity”) che presenta le caratteristiche tipiche, tranquillizzanti, di un welfare nordeuropeo. Ovviamente è già stato detto che non se ne farà niente (dagli stessi partiti della cosiddetta sinistra), considerato che una simile novità costerebbe troppo.
E si ritorna al tema, ahinoi, delle temibili riforme a “costo zero” che fanno prospettare una ulteriore precarizzazione del lavoro (ciò che i sindacati temono).

Le parole di Monti non sono altro che l’espressione di una forma mentis ben radicata presso certi settori della nostra società: un modello ad excludendum in base al quale chi è rimasto indietro può andare a fare il barbone (ma non il delinquente, perché arrecherebbe disturbo) mentre ha rilevanza solo il “vincente” o “il brillante”, quello che cioè rientra negli schemi di meritevolezza quantificati dal mercato e dai media che fanno “pensiero”.

Mario Monti non è stato male interpretato, non si è spiegato male. Ha semplicemente espresso il suo pensiero, forse volendo verificare la reazione di una opinione pubblica adeguatamente intontita da una campagna mediatica a suo favore. Non a caso le sue apparentemente incaute dichiarazioni si accompagnano a quelle dei ministri che a vario titolo – con rozzezza ed arroganza – hanno detto la loro sul problema. Trattasi insomma di strategie pianificate: si vuole semplicemente scoprire il “punto di rottura”, capire fin dove il governo può spingersi nell’attuazione di politiche neoliberiste soprattutto nel campo del mercato del lavoro. Tutti costoro hanno toccato un nervo scoperto. Sappiamo benissimo che senza il “noioso posto fisso” le banche non concedono credito e si è privi della cittadinanza bancaria. Ed è ormai chiaro come quest’ultima sia ben più preziosa di quella che con tanta paternalistica generosità la nostra classe dirigente vorrebbe regalare agli immigrati.