Month: gennaio 2013

Caso MPS: stavolta il “non poteva non sapere” vale per il Pd.

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La storia del Partito Democratico è il risultato di un lungo percorso, di un lento avvicinamento, che ha visto protagonisti la sinistra democristiana, ovvero i cattolici democratici, e i comunisti, poi divenuti “ex” dopo la caduta del Muro di Berlino. Un processo lungo e difficile, frammezzato da momenti anche drammatici, battute d’arresto, e poi ancora conseguenti accelerazioni. Non c’è dubbio, però, che l’attuale Pd sia il risultato di un’onda lunga, di un pensiero lungo; l’idea originaria era proprio quella di Aldo Moro, il democristiano meno compromesso, fervido sostenitore dei governi di centro-sinistra degli anni 60 e poi del cosiddetto compromesso storico del decennio successivo con i comunisti, in seguito definito più modestamente come solidarietà nazionale.

Il Partito Democratico, insomma, è il frutto di un progetto politico piuttosto risalente con il quale si riteneva possibile la convergenza di credenti e non credenti (in qualche caso addirittura anticlericali) in un’unica formazione politica profittando anche della mancanza, a causa dei terribili anni di Tangentopoli, di un forte partito socialista.

Che al Pci (poi divenuto Pds, Ds, ed infine Pd) piacessero gli “affari” è ben dimostrabile dalla grande capacità di mantenere, economicamente parlando, un apparato partitico che ha sempre avuto pochi rivali nel mondo occidentale. Il Pci – così come tutte le sigle successive – non è mai stato un comitato elettorale ma un partito fortemente burocratizzato capace di mantenere solidi agganci col territorio, non solo nelle cosiddette regioni rosse.

Insomma, non parliamo di “tangenti” (o di un rapporto parossistico col denaro) ma soltanto di una spiccata capacità finanziaria, anche “salottiera” e di “relazione”.

Sotto questo aspetto si possono ricordare gli ottimi rapporti tra Agnelli e il Pci. Oppure i non troppo sbandierati legami che il Pci anni 80, compresa la corrente “modernista” del futuro Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, soleva intrattenere con un giovane imprenditore di nome Silvio Berlusconi (vicenda descritta mirabilmente nel fondamentale libro di Michele De Lucia, “Il Baratto”). O ancora si pensi al consolidato sistema delle Coop rosse che, al netto dei dubbi “espressi” dagli avversari politici, ha fatto letteralmente impazzire concorrenti come quel patron di Esselunga capace di ingaggiare una lunga battaglia legale lamentando l’abuso di posizione dominante da parte del gigante cooperativo.

Fino ad arrivare a vicende più recenti, ormai divenute di pubblico dominio, grazie, una volta tanto, non ad una inchiesta della magistratura ma ad uno scoop giornalistico.

In realtà che qualcosa non andasse nella gestione dei Monti dei Paschi di Siena se n’erano accorti in tanti, ma a metterci il naso sono stati soprattutto quelli del Fatto Quotidiano ed il bravissimo Marco Lillo.

Chapeau. Anche perché l’attenzione mediatica ha portato alle dimissioni di Giuseppe Mussari dalla presidenza dell’Abi, la potente associazione dei banchieri italiani. Una sorta di Confindustria dei banchieri.

Certo, sostenere che in quel di Siena il Pd “non c’entri” è davvero difficile, se è vero com’è vero che Mussari aveva forti contatti con il Pd nazionale ed ovviamente con quello locale e se è vero che le nomine presso la fondazione MPS erano politiche così come politica era la gestione dei soldi generosamente devoluti a favore del territorio senese. Con risultati anche importanti, per carità, ma con modalità che, per forza di cose, si sono rivelate col tempo particolarmente nebulose.

Tutto inizia con l’acquisizione, da parte del Monte di Paschi di Siena, della Banca AntonVeneta, per la mirabolante cifra di 10 mld di euro. Davvero singolare, perché la parte venditrice, ovvero il Banco Santander, si sarebbe ampiamente accontentata di una cifra vicina ai 7 mld, considerevole, ma comunque inferiore rispetto a quella erogata da MPS. L’operazione è stata finanziata dalla fondazione MPS; da qui la necessità di compiere un aumento di capitale, non sufficiente però a garantire il ripianamento del buco di bilancio creatosi con l’improvvido acquisto. Ed è a questo punto che vengono fatte le spericolate operazioni finanziarie, con tanto di derivati, capaci di aumentare i problemi, invece che risolverli, al punto da portare l’avv. Mussari alle dimissioni.

Il MPS, dopo giorni di passione in Borsa, accetta i Monti Bond sui quali, nel frattempo, si è sviluppata una forte polemica politica: i quasi 4 miliardi che il governo ha offerto per il ripianamento del buco di bilancio coincidono con quelli “estorti” agli italiani a seguito dell’imposizione dell’IMU sulla prima casa.

Alcuni contestano quest’ultimo punto, altri lo avallano; in realtà, considerando la perfetta fungibilità del denaro, si può ritenere che comunque i soldi incassati dallo Stato grazie all’odiato balzello siano stati utilizzati per ripianare i buchi (conosciuti) di una banca privata molto vicina ad un partito della maggioranza.

La magistratura indaga: staremo a vedere. Anche se già a questo punto si può certamente dire come il sistema di controllo (Bankitalia, Abi, financo Consob) abbia ancora una volta mostrato tutti i propri limiti, esattamente come nelle altre vicende che in 30 anni hanno sconvolto il panorama economico-finanziario italiano e soprattutto il portafoglio di tanti piccoli risparmiatori.

Le ultime indiscrezioni lascerebbero paventare un quadro ancor più inquietante: si sta facendo strada l’ipotesi che il sovrappiù pagato per acquisire AntonVeneta nasconda rilevanti tangenti spartite tra manager (e forse politici) spagnoli e italiani, denaro poi parzialmente rientrato grazie al tanto criticato “scudo” fiscale voluto da Tremonti.

A questo punto sorgono spontanee almeno un paio di domande.

Prima di tutto ci sarebbe da chiedersi se Mario Monti, Presidente del Consiglio in carica, capace di vantare molteplici conoscenze nel mondo bancario al punto da candidare nella propria lista esponenti del cda di MPS, fosse davvero all’oscuro delle vicende riguardanti il Monte dei Paschi e soprattutto delle rischiose manovre finanziarie compiute dal suo gruppo dirigente. Che MPS fosse in cattive acque lo si poteva intuire da tempo; bisognerebbe capire se chi ha guidato il governo sapeva qualcosa di più o se invece ha preferito far finta di nulla. Il ministro dell’economia Grilli ha recentemente dichiarato che il governo conosceva da un anno la difficile situazione della banca senese, precisando però che i controlli erano di competenza di Bankitalia. Sarà. Ma di certo il livello tecnico-politico non si può autoassolvere così facilmente. Soprattutto considerando che gli italiani hanno sostanzialmente pagato con la tassa sulla prima casa quel Monti Bond con il quale lo Stato spera di ripianare il buco di bilancio – non ancora esattamente quantificato e pertanto probabilmente ancora più ampio – creato dagli spericolati banchieri. Ed a questo punto si potrebbe configurare un’ipotesi particolarmente odiosa per il governo Monti: quella di aver compreso lo stato delle cose, in particolare le azioni criminogene poste in essere per l’operazione AntonVeneta con tanto di finanziamenti illeciti a politici e banchieri, preferendo, nonostante tutto, “scaricare” le perdite sulle spalle dei contribuenti.

L’altra domanda che ci si può porre riguarda proprio il Partito Democratico: possibile che i piddini, di “casa” all’interno del MPS, non si siano mai accorti di nulla? Davvero il Pd ignorava le operazioni poste in essere dal board del Monte dei Paschi pur avendo propri uomini ovunque, sia all’interno della banca, sia nella fondazione che la controllava, così come in tutte le istituzioni cittadine e locali che beneficiavano di generose elargizioni? E’ davvero credibile ritenere che nel 2007, con il centro-sinistra al governo da oltre un anno, nessuno si fosse accorto di ciò che Mussari stava combinando per l’acquisizione di AntonVeneta? E come mai nessuno si preoccupò di chiedere spiegazioni per l’anomalo costo dell’operazione? Possibile, infine, che il Pd non sia minimamente responsabile per una città come Siena che a parte il Monte era già balzata agli onori della cronaca per i buchi nei bilanci di università e comune?

Insomma, il “non poteva non sapere”, usato generosamente in passato per altri, potrebbe, stavolta, risuonare anche per il Partito Democratico.

Il Caimano morde ancora.

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Un Berlusconi sempre più in forma rappresenta una delle poche note di interesse di una campagna elettorale fin qui piuttosto anonima. In un contesto nel quale tutti sono più o meno d’accordo il Cavaliere è davvero l’unico capace di andare in una tv come La 7 e fare, nel vero senso della parola, 9 milioni di telespettatori ed uno share del 33% (dato ovviamente storico per l’emittente in quota Telecom). Alla luce di questi prevedibili risultati appare ancor più incomprensibile la scelta di Bersani di presentarsi quasi in contemporanea da Vespa: inevitabili i raffronti, i Bersani flop del giorno dopo, con i quali alcuni organi di stampa hanno salutato la comparsata tv del segretario Pd.

Invero i sondaggi davano già da qualche tempo il Pdl in recupero, dopo una perdita di consensi che pareva davvero inarrestabile; basti pensare a quell’incredibile 13%, toccato a novembre in coincidenza con le primarie del Pd, mesto vaticinio di un epilogo analogo a quello dei più importanti partiti di governo della cosiddetta Prima Repubblica. Insomma è nel momento in cui si tocca il fondo che Berlusconi si convince definitivamente della carenza di quid da parte di Alfano, accantona il sempre poco amato progetto-primarie, e si ripresenta come capo di una variegata coalizione incentrata sul patto Pdl-Lega.

E’ chiaro come la vittoria di Pierluigi Bersani e della sinistra sia, a questo punto, certamente meno scontata rispetto a poche settimane fa. Il segretario Pd, che soltanto nel dicembre scorso scandiva non-vedo- l’ora-di-sfidare-Berlusconi, sembra oggi molto più cauto riguardo al tema dei confronti tv; da qui la volontà di considerare solo i candidati premier e non i  “semplici” capi coalizione.  Una scelta legittima, intendiamoci (d’altronde Bersani è ancora in vantaggio, mentre Berlusconi ha l’obbligo di recuperare), ma che tradisce qualche preoccupazione di troppo, considerando l’ottima forma sfoderata dall’ormai anziano Cavaliere. Il quale, dal canto proprio, davvero si diverte di fronte alle telecamere, anche quando gioca fuori casa, come avvenuto l’altra sera a Servizio Pubblico.

Sotto quest’ultimo aspetto non c’è dubbio sul fatto che il duello abbia riguardato esclusivamente Santoro e Berlusconi. Gli altri non sono nemmeno esistiti. Colpisce, in particolar modo, il flop di Travaglio. Dopo averne scritte di tutti i colori per 20 anni (spesso a ragione, intendiamoci) l’allievo di Montanelli non è riuscito a fare una sola domanda diretta al Cavaliere, da uomo a uomo, come si sarebbe detto un tempo, ovvero guardandolo negli occhi; anche i più focosi fans del giornalista sono rimasti chiaramente delusi. Paradigmatica è stata la scena nella quale Berlusconi, alzatosi dalla propria postazione, si dirige verso Travaglio intimandogli di sloggiare, con quest’ultimo che esegue l’ordine e se ne va. Le telecamere e i commentatori hanno indugiato soprattutto sulla gag successiva, Berlusconi che “pulisce” lo scranno dov’era posizionato Travaglio, ma il momento emblematico è il precedente perché riassume perfettamente chi sia stato il vincitore del confronto e, forse, la stessa tempra dei protagonisti in gioco. A peggiorare la situazione poi è intervenuta l’inopportuna, quasi ridicola, querela del giornalista, conseguenza del “papello” letto dall’ex premier in diretta.

Che d’altronde Berlusconi fosse in forma lo si poteva facilmente preventivare. Alle prime, infelici, apparizioni in tv (quelle di fronte alla D’Urso e a Giletti, per intenderci, fino alle insofferenze mostrate da Vespa) era seguito il “match” con la Gruber, risolto a favore del Cavaliere; basti pensare al grottesco epilogo nel quale la conduttrice si vantava delle sue origini “austro-ungariche”, oggetto poi di lievi sberleffi persino da parte di Santoro nel prologo della trasmissione di giovedì. Questi fatti stanno a dimostrare come a Berlusconi facciano mediaticamente bene gli ambienti ostili, le “fosse dei leoni”, le corride, piuttosto che gli intervistatori un tempo accusati di esagerata acquiescenza e pertanto oggi in cerca di “riposizionamento”.

Insomma, a Berlusconi serve un fiero, coerente, “nemico” per esaltarsi. E’ per questo che la routine non fa per lui: al governo “si annoia”.

L’abbraccio…

L’abbraccio di Depardieu al semi-dittatore Putin fa storcere il naso, soprattutto a sinistra ed in particolar modo a chi ritiene la Francia “patrie des droits de l’Homme”. In realtà l’oppressione fiscale, quale è senz’altro definibile una tassazione al 75% sia pure per i redditi “alti”, non ha niente a che vedere con i diritti dell’uomo. Anzi, la fiscalità sfrenata è spesso stata alla base di importanti eventi rivoluzionari: si pensi alla gloriosa rivoluzione inglese del 1688 (che aveva anche altre motivazioni legate al rifiuto di una monarchia assoluta sullo stile francese) e soprattutto alla guerra di indipendenza americana contro gli inglesi.

Per noi italiani è difficile concepire l’idea di rivoluzione, ancor di più se legata a motivazioni fiscali. Cose dell’altro mondo, che non ci appartengono.

In realtà tassare al 75% chi guadagna più di un milione di euro appare una vera e propria sciocchezza, frutto di una malintesa ideologia egualitaria, ancor prima che un latrocinio legalizzato.

Certamente il regime di Putin sfrutterà l’accaduto e la sinistra francese sarà incazzatissima con Depardieu, verso il quale non mancheranno le rappresaglie sotto il profilo professionale (a patto che abbia ancora voglia di fare l’attore).

Insomma un vero e proprio pasticcio, ricco di risvolti internazionali, dovuto all’incompetenza di un presidente socialista, Francois Hollande, in crisi di consensi e di idee dopo pochi mesi di governo al punto tale da scatenare una crociata contro i “ricchi”. Qualcuno ha addirittura invocato “regole comuni sul fisco in Europa”, ovviamente ispirate alla folle tassa inventata da Hollande.

In realtà, più che dei “ricchi”, è proprio di questa visione, paternalistica, etica, in fondo autoritaria dell’Europa che bisogna aver paura.

La tentazione di votare i Barbari.

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Alessandro Baricco, in un libro non troppo recente, spiega che cosa sono per lui i Barbari, senza cedere a facili giudizi, o almeno a quelli che ci si potrebbe banalmente aspettare da uno scrittore “colto”. I Barbari che soppiantano il mondo vecchio, quello fondato sulla fatica, lo studio, l’applicazione, il senso. I Barbari, col loro arrivo, la loro energia, sostituiscono tutto ciò con la “spettacolarità”, la velocità, il senso orizzontale della vita, la scarsa attenzione al particolare, all’analisi escatologica. Non hanno voglia né tempo di approfondire. Non solo: ritengono tutto ciò fonte di disastri. Di vere e proprie tragedie. I Barbari, cioè, pongono la parola fine alla Storia.

Quello di Baricco è dunque un saggio sulla mutazione, nostra, a livello individuale e di massa, in alcune parti pure divertente.

Sotto il profilo politico la distinzione è meno netta, nonostante la protervia dimostrata da alcuni mezzi di comunicazione nel distinguere tra buoni e cattivi, meritevoli e pericolosi. I grandi giornaloni nazionali, si sa, hanno i loro beniamini, in realtà sempre gli stessi, in questo momento uno solo, una sorta di nuovo uomo della Provvidenza come, in maniera un po’ improvvida, ha recentemente lasciato intendere  anche l’autorevole organo della Chiesa cattolica.

Una strana alleanza quella tra muratori e preti, non c’è che dire.

IL Barbaro, invece, ha le caratteristiche che Baricco gli attribuisce nel suo raffinato saggio. Egli si distingue sia dall’uomo della Provvidenza che dalle cariatidi che hanno infestato lo Stato, in maniera oramai irreparabile, al punto tale da minarlo alle fondamenta.

Le cariatidi non lo fanno apposta: è una questione di sopravvivenza. Se mollano la presa, il potere, muoiono. Esattamente come quei satrapi orientali che una volta caduti finiscono ben presto in un deperimento fisico e psichico, repentino ed irreversibile.

Insomma abbiamo tre figure che, politicamente, si confronteranno alle prossime elezioni: Lui, l’uomo della Provvidenza, le vecchie cariatidi da basso impero con il congruo contorno di sgualdrine e nani, e loro, i Barbari.

Come da titolo la tentazione di votare i Barbari è, a questo punto, piuttosto forte, perché, semplicemente, non c’è più nulla da salvare di questa nostra repubblica. La repubblica, cioè, è marcia. Totalmente. Occorre dirlo, senza paure. Non c’è più nulla da proteggere, salvaguardare, trarre in salvo.

Non c’è da ritoccare, c’è da distruggere.

Sulla dipartita di Pubblico urge autocritica.

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Il 31 dicembre del 2012 è andato in edicola l’ultimo numero di Pubblico giornale, il quotidiano fondato da Luca Telese.

Personalmente ho visto con simpatia questo “esperimento”, non solo secondo modalità “a costo zero” ma anche acquistando con una certa puntualità il giornale. Che qualcosa, però, non funzionasse me ne sono accorto in fretta.

Prima di tutto il nome: che significa Pubblico?

Nel mio piccolo feci sapere a Luca Telese la incomprensibilità di una simile scelta, ma naturalmente non ebbi alcuna risposta. Il nome era già stato scelto e si andava con grande entusiasmo a presentare la nuova iniziativa editoriale nelle piazze.

Sembrerà una cosa stupida ma anche il “nome” vuole la sua parte così come l’occhio e, nel caso di un quotidiano, la leggibilità.

Perché anche buona parte degli articoli erano illeggibili. Spesso avevano ad oggetto tematiche di scarso interesse per la “massa” del pubblico (quello vero) ed in ogni caso apparivano scritti con un ritegno che mal si concilia con ciò che un lettore medio può capire.

Sono ancora dell’idea che un giornalista debba scrivere a beneficio di chi legge.

La grandezza dei Maestri (Montanelli e Biagi su tutti, ma anche Bocca, Zavoli e perfino Fallaci) consisteva nel farsi comprendere da tutti.

Anche la morale del giornale (l’essere dalla parte degli ultimi e dei primi) appariva confusonaria e ruffiana. O si sta dalla parte degli ultimi o dei primi. Da qui non si esce. Qualsiasi altra soluzione è un imbroglio. D’altronde è sempre stato così e lo è, a maggior ragione, oggi in una situazione nella quale i “primi” sono sempre più primi e gli “ultimi” sempre più ultimi.

Le strategie di marketing non le voglio discutere, non conoscendo come siano andate le cose. Ma come lettore e, nel mio piccolo, operatore del settore posso dare questa opinione.

In sintesi mi pare chiaro che un po’ più di umiltà, soprattutto da parte dei tanti giovani (o meno giovani) assunti e collaboratori di Pubblico non avrebbe fatto male.

Magari l’avventura si sarebbe comunque conclusa presto, visto che – a quanto sembra – non esistevano neppure le premesse economiche necessarie per far andare avanti il quotidiano.

Ma quando vendi 4 mila copie e fallisci in soli tre mesi la responsabilità non può essere che condivisa a più livelli e quindi se da un lato è giusto che Pubblico abbia chiuso dall’altro fa comunque riflettere l’approccio da parte delle cosiddette “nuove leve”.

Un po’ troppo signorini, un po’ troppo “fighetti”. Un po’ troppo “io ce l’ho fatta”.

L’attenersi ad un piano di maggiore modestia (parola sconosciuta ai nostri giorni), minore autoreferenzialità, più capacità di ascolto del lettore “medio” non avrebbe fatto male. Così come qualche “accozzato” in meno.