Alfa 6.

La progettazione dell’Alfa 6 (nome in codice Progetto 119) venne avviata all’inizio degli anni settanta e l’entrata in produzione era prevista per la fine del 1973. La Casa di Arese, infatti, voleva rientrare alla grande nel settore delle grandi berline a 6 cilindri, dopo l’uscita di scena (1969) dalla poco fortunata ma imponente berlina 2600. Il progetto 119, che riprendeva molti concetti sia tecnici (ma non lo schema transaxle) che estetici dell’Alfetta, doveva, infatti, portare al debutto un nuovo motore V6 di 2,5 litri tutto in alluminio. La crisi petrolifera alla guerra del Kippur (novembre 1973), sconsigliò i vertici della Casa, allora di proprietà dell’IRI, di mettere in produzione un’autovettura, peraltro ormai definita in tutti i particolari, che percorreva 7,0 km con un litro di preziosa benzina.
Gli shock petroliferi e sociali, che attraversarono tutto il periodo 1974-1978, s’attenuarono verso la fine del decennio, così, nel 1979, l’Alfa Romeo decise di introdurre sul mercato il frutto del Progetto 119.
Quando venne presentata al pubblico, dopo un congelamento del progetto per sei anni, la nuova grande ammiraglia Alfa 6 era già superata, sia sotto il profilo estetico che sotto quello meccanico.
Stilisticamente somigliava a una Alfetta gonfiata e le linee squadrate e superate erano parte di un progetto ormai superato, dalla ridotta larghezza (appena 1,68 m, mentre la lunghezza era di 4,76 m), che fra l’altro determinava un’abitabilità interna sufficiente per sole quattro persone, dal passo di soli 2,60 m (col conseguentemente esagerato sbalzo posteriore) e da alcuni particolari di dubbio gusto. I gruppi ottici posteriori, ad esempio, erano troppo grandi, i paraurti (in metallo con cantonali in gomma) eccessivamente massicci e la presa d’aria sporgente sul montante posteriore poco elegante.
Anche la meccanica, pur raffinata, era datata. Il ponte posteriore De Dion, complesso e costoso, aveva, ad esempio, un’efficacia paragonabile a quella dei più moderni schemi a ruote indipendenti, più semplici, leggeri ed economici.
Le cose andavano un po’ meglio all’interno dove le finiture, pur lontane dalle concorrenti dichiarate (BMW e Mercedes), erano discrete e in ogni caso superiori alla media Alfa Romeo dell’epoca.
Il punto forte della nuova ammiraglia di Arese era tuttavia l’ottimo V6 di 2.492 cm³ alimentato da 6 carburatori monocorpo (158 cavalli), abbinato ad un cambio manuale a cinque rapporti montato in blocco col motore (niente transaxle, quindi). Per il resto lo schema tecnico prevedeva un avantreno a ruote indipendenti con doppi triangoli e barre di torsione, retrotreno De Dion e 4 freni a disco (quelli posteriori entrobordo).
La prova della rivista specializzata Quattroruote, mise in luce le buone caratteristiche del motore, il comportamento stradale valido, ma anche i consumi elevati e la linea superata. L’Alfa tentò di promuovere la grande robustezza della scocca ma, per colmo di sfortuna, nel 1981 l’attore Gino Bramieri (fra i primi acquirenti del modello) distrusse la sua Alfa 6 automatica in un drammatico incidente nel quale perse la vita l’attrice Liana Trouche. In verità, va detto però che l’attrice morì perché fu sbalzata fuori dall’abitacolo in quanto non aveva allacciato la cintura di sicurezza, malgrado la vettura ne fosse provvista; l’attore, comunque, attribuì l’incidente al malfunzionamento del cambio automatico.
Della prima serie, prodotta fino alla fine del 1982, sono stati costruiti poco più di 6.100 esemplari.
Nel 1983, nel tentativo di risollevare le sorti commerciali del modello, l’Alfa 6 venne sottoposta a un restyling. Data la scarsità di risorse finanziarie a disposizione della Casa non vennero toccate le lamiere e le modifiche si concentrarono sugli elementi dell’abbigliamento esterno e sugli interni. All’esterno cambiarono i fari (due trapezoidali, anziché quattro circolari), la mascherina anteriore, i paraurti (ora totalmente in plastica e privi di rostri, fatto che fece scendere la lunghezza del modello a 4,68 m) e comparvero nuovi profili laterali paracolpi e inediti spoiler aerodinamici sotto ai paracolpi. L’assetto divenne più basso, rendendo la vettura meno massiccia. All’interno vennero ridisegnati i sedili ed i pannelli porta, mentre la plancia venne solo ritoccata. Dal punto di vista tecnico si segnalava l’adozione dell’iniezione elettronica che donava al V6, sempre di 2,5 litri, maggior dolcezza d’erogazione e maggior sobrietà nei consumi. La potenza rimase stabile a 158 cavalli.
Sul mercato interno, nel tentativo di rendere più appetibile fiscalmente l’Alfa 6, la 2.5i, disponibile solo nell’allestimento ricco Quadrifoglio Oro (completo anche di aria condizionata e sedili a regolazione elettrica) venne affiancata dalla 2.0 V6 (equipaggiata col V6 a carburatori di cilindrata ridotta a 1.996 cm³ per 135 cavalli) e 2.5 Turbodiesel R5 (spinta da un cinque cilindri di origine VM Motori di 2.494 cm³ da 105 cavalli). Questi due modelli furono penalizzati da una massa quasi inusitata per l’epoca (la 2.0 V6 pesava 1.470 kg e la Turbodiesel R5 addirittura 1.580 kg) che impediva loro di raggiungere prestazioni accettabili. L’Alfa 6 restò sul mercato per altri quattro anni, con un impatto sul mercato sempre più trascurabile, ed uscì di listino nel 1987, rimpiazzata dalla 164. Della seconda serie erano stati prodotti in tutto 6.000 esemplari (di cui 1.162 versioni 2.5i V6 Quadrifoglio Oro). Le ultime vetture prodotte, giacenti invendute nel deposito di Arese, furono esportate due anni più tardi in Polonia e in altri paesi dell’est europeo.

Fonte:
Tanta nostalgia delle auto anni 70/80 (pagina Facebook).

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