Brigate Rosse

Sequestro Moro. Non è vero che la scorta facesse sempre lo stesso percorso

Moro 2Come hanno fatto le Brigate rosse a sapere con tanta certezza che il presidente Dc sarebbe passato per via Fani in quella mattina del 1978? Una parziale spiegazione viene dal principale propalatore di verità brigatiste sul caso Moro, quel Valerio Morucci secondo il quale «il 16 marzo era uno dei giorni in cui sarebbe potuto passare l’onorevole Moro. Sarebbe però anche potuto non passare: era stato verificato il suo passaggio lì in alcuni giorni, ma non era stato verificato che passasse lì sempre. Il 16 marzo era quindi il primo giorno in cui si andava in via Fani per compiere l’azione credendo e sperando che Moro sarebbe passato lì quella mattina; altrimenti si sarebbe dovuti tornare il giorno dopo, poi il giorno dopo ancora, fino a che si sarebbe ritenuto che la nostra presenza sul luogo avrebbe comportato il rischio di essere scoperti»*.

Le dichiarazioni degli agenti superstiti, poi (quelli cioè che per una mera turnazione non erano in servizio nel giorno dell’agguato) lasciano sul terreno più perplessità che certezze. Quando l’appuntato dei carabinieri Otello Riccioni, il maresciallo di pubblica sicurezza Ferdinando Pallante, il brigadiere Rocco Gentiluomo, gli agenti Vincenzo Lamberti e Rinaldo Pampana vengono interrogati nel settembre 1978 dai giudici Imposimato e Gallucci, le loro dichiarazioni si rivelano quasi totalmente sovrapponibili: «Ogni mattina il presidente Moro si recava sempre alla messa delle ore 9 nella chiesa di Santa Chiara, in Piazza dei Giuochi delfici e il percorso seguito era sempre lo stesso, il più breve e il più veloce: via del Forte Trionfale, via Trionfale, via Fani, via Stresa, via della Camilluccia fino a piazza dei Giuochi delfici». Solo l’agente Pampana si discosta un po’ dalle deposizioni fotocopia, aggiungendo un particolare molto preciso: «L’onorevole Moro usciva, costantemente, salvo rare eccezioni, intorno alle ore 9. Era precisissimo nell’orario, nel senso che poteva anticipare o posticipare l’ora di uno o due minuti».

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Dichiarazioni che contrastano clamorosamente con quelle della signora Eleonora Moro, interrogata qualche giorno dopo dagli stessi magistrati: «Mio marito non era un abitudinario. Non è esatto quanto affermato dai superstiti della scorta. Essi sostengono che l’onorevole Moro era solito uscire di casa verso le ore 9. Invece, negli ultimi tempi, a causa della crisi di governo, non aveva mai un orario preciso». Insomma, nessuna scorta al mondo compie sempre lo stesso tragitto e una conferma esplicita arriva anche da quanto detto dalla vedova Moro ai giudici: «Mio marito non faceva di solito la stessa strada per motivi di sicurezza. Ritengo di dover affermare che il percorso veniva deciso al momento da lui e dal maresciallo Leonardi, il caposcorta. La sua auto percorreva alle volte Via Cortina d’Ampezzo, alle volte Via Fani, alle volte Via Trionfale».

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Anche Agnese Moro, la figlia del presidente Dc, nel luglio 1982, davanti ai giudici della corte d’assise di Roma, conferma la versione della madre: «Vorrei sottolineare che mio padre non faceva sempre gli stessi percorsi. Via Fani non era che una delle strade che potevano essere percorse la mattina come nel corso della giornata, anche perché è una strada stretta, disagevole, spesso trafficata. I percorsi si cambiavano spesso perché c’erano delle preoccupazioni da parte di mio padre, inerenti al suo ruolo politico, preoccupazione per sé e per i familiari. Ho sentito abbastanza frequentemente delle conversazioni fra Ricci e Leonardi sul percorso da scegliere. A volte mi è capitato anche di sentir dire: “mi hanno detto che lì c’è traffico, passiamo da un’altra parte”. I percorsi credo che poi venissero stabiliti anche a seconda del ritardo per arrivare a destinazione. C’era anche la variabile dell’orario effettivo di uscita di casa di mio padre. Che il percorso da fare venisse stabilito la sera prima mi pare veramente impossibile anche perché mio padre era un tipo veramente ritardatario, quindi, magari, usciva con tre quarti d’ora di ritardo. Sono sicura che i percorsi venivano stabiliti la mattina stessa. Quindi ritengo che il percorso di Via Fani la mattina del 16 marzo venne stabilito casualmente quella mattina stessa»**.

 

* Dichiarazioni di Morucci in sede processuale: “La notte della Repubblica”, Sergio Zavoli, prima puntata sul sequestro Moro, a partire dal punto 4′,50”

** Da menzionare l’ottima inchiesta di Gino Gullace Raugei per Oggi del marzo 2010 che può essere letta integralmente qui

La lettera di Moro non consegnata dai Br perché zeppa di elementi utili alle indagini

Le-Lettere-di-Aldo-MoroLe Brigate rosse recapitarono per ragioni politiche o per una oggettiva difficoltà solo una parte delle missive scritte da Aldo Moro a personalità pubbliche e alla famiglia. Tra queste ultime, acquista un particolare significato quella indirizzata a Luca Bonini, figlio di Maria Fida Moro, nipote del presidente Dc: è quel «piccolo Luca», spesso citato nella sterminata pubblicistica sul caso Moro, al quale lo statista fa spesso riferimento durante i 55 giorni nelle prigioni brigatiste. La lettera verrà diffusa soltanto nel 1990 a seguito del secondo, incredibile, ritrovamento di armi e documenti durante i lavori di ristrutturazione dell’ex covo brigatista di via Monte Nevoso a Milano, già oggetto di una irruzione, con relativa accurata perquisizione, da parte dei Carabinieri del generale Dalla Chiesa nell’ottobre 1978.

La missiva, che inizia con un «mio carissimo Luca, non so chi e  quando ti leggerà, spiegando qualche cosa, la lettera che ti manda quello che tu chiamavi nonnetto» ha l’apparente aspetto di una dolce dichiarazione d’amore di Moro verso il nipotino, ma contiene probabilmente diversi riferimenti sul luogo (o uno dei luoghi) in cui potrebbe esser stato tenuto prigioniero il presidente democristiano (nonostante la verità giudiziaria indichi in via Montalcini l’unica prigione). Ad accreditare una simile intuizione è Prospero Gallinari, tra i Br che spararono in via Fani, carceriere di Moro, in una intervista concessa a Mario Scialoja nell’ottobre 1990.

L’intervista, pubblicata su L’Espresso, prende il là dal già citato secondo ritrovamento nell’ex covo milanese di via Monte Nevoso che nel frattempo era stato oggetto di un passaggio di proprietà. Un rinvenimento di armi e scritti fotocopiati di Moro, posticipato di ben dodici anni rispetto al 1978, che lo stesso Gallinari definisce «incredibile», in un appartamento definito «scarnificato» dagli inquirenti all’indomani delle perquisizioni di fine anni Settanta: nell’intervista, resa possibile attraverso lo scambio di domande trasmesse in carcere e risposte per iscritto, il leader brigatista parla esplicitamente della attività di controllo e censura sugli scritti di Moro.

«Fra le lettere di Moro trovate adesso a via Monte Nevoso», chiede Scialoja riferendosi al secondo rinvenimento del primo ottobre 1990, «ce ne sono alcune mai rese note: le risulta che il presidente della Dc scrisse lettere che le Br decisero di non recapitare? E perché?» – Gallinari risponde: «In qualche caso, Moro chiese di correggere alcune lettere che stavano per essere recapitate: tra il materiale saltato fuori in questi giorni è stata evidentemente trovata la prima stesura di qualcuno di questi scritti, parzialmente diversa dal testo delle lettere poi consegnate. In altri casi, furono proprio le Br a chiedere a Moro di cambiare qualche espressione perché le parole che aveva usato potevano fornire delle informazioni agli inquirenti. Furono invece rarissime le occasioni in cui venne posto un veto alla spedizione dei messaggi: e una delle lettere non consegnate è stata proprio quella al nipotino Luca (pubblicata nei giorni scorsi) perché conteneva vari elementi che avrebbero potuto favorire le indagini».

Una ammissione incredibile che permette di andare a cercare nella breve lettera indicazioni utili a ipotizzare l’effettiva prigione di Moro (o una delle effettive). Tre sono i passi di interesse nel documento: quel «ora il nonno è un po’ lontano, ma non tanto…» concetto espresso nuovamente poco dopo con parole diverse («il nonno che ora è un po’ fuori») e un riferimento finale a uno scenario marino («e quando sarà la stagione, una bella trottata sulla spiaggia») che potrebbe far pensare a un luogo di detenzione non tanto lontano da Roma – forse vicino al mare – secondo una ipotesi già avanzata in sede di commissione d’inchiesta e nelle ricostruzioni della pubblicistica. Una intuizione che, insieme al sorprendente stato di pulizia e tonicità muscolare del corpo di Moro emerso in sede autoptica, si incrocia con il ritrovamento nelle urine di tracce consistenti di nicotina quasi che il presidente Dc avesse fumato nei giorni immediatamente precedenti la morte o subìto del fumo passivo. Uno scenario, questo, incompatibile con la versione consolidata di una prigionia durata quasi due mesi in un bugigattolo come quello di via Montalcini – delle dimensioni di tre metri per due – chiamato dai brigatisti «prigione del popolo».

 

Note

  • Per quanto riguarda la lettera a Luca non inviata dalle Br, vedi Selva, Marcucci in Aldo Moro, quei terribili 55 giorni, pagina 331
  • Sul tema della nicotina, vedi Relazione del Prof. Claudio De Zorzi sulle indagini chimiche eseguite in ordine alla morte di Aldo Moro, prima Commissione Moro, volume XLV, pagina 810

 

 

Il golpe in bianco di Edgardo Sogno

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di Ben Oates

In uno dei cortei della cosiddetta Maggioranza Silenziosa movimento definito di destra o conservatore che caratterizza la prima metà degli anni Settanta – si inneggia a Edgardo Sogno perché «l’Italia ne ha bisogno». Nato a Torino nel 1915, ufficiale di cavalleria, dopo l’8 settembre entra nella brigata Franchi, la compagine della Resistenza collegata agli inglesi dove si guadagna la Medaglia d’Oro: celebre il suo audace tentativo di liberare Ferruccio Parri prigioniero delle SS nell’hotel Regina di Milano.

Negli anni Cinquanta Sogno entra in diplomazia ricevendo prestigiosi incarichi a Parigi, Buenos Aires, Washington e Rangoon, capitale della Birmania dove è ambasciatore; quelli sono anche gli anni nei quali, insieme a Luigi Cavallo, fonda l’organizzazione anticomunista Pace e Libertà e, nell’ottobre del 1956, si adopera per mettere in salvo molti profughi ungheresi, dopo che il loro Paese è stato invaso dalle truppe sovietiche.

Alla fine degli anni Sessanta rientra in Italia e, preoccupato per la piega politica che a suo dire sta pericolosamente pendendo verso un’inevitabile vittoria del PCI, nel 1971 a Milano fonda i Comitati di Resistenza Democratica ai quali partecipano alcuni suoi ex compagni della Franchi e il suo vecchio amico Randolfo Pacciardi. Nei tre anni successivi l’attività dei Comitati è caratterizzata da incontri pubblici e privati, con numerose personalità del mondo politico, economico, culturale e militare, tutti legati dall’anticomunismo e dall’antifascismo, tutti con l’obiettivo di una svolta presidenzialista di tipo gollista da attuare prima che il Paese cada nelle mani dei comunisti. Per Sogno il momento di passare dalle parole all’azione arriva nella primavera del 1974 quando, nell’arco di un paio di settimane, le Brigate Rosse rapiscono a Genova il giudice Mario Sossi e tentano la stessa cosa con lui a Milano facendo irruzione nel suo ufficio, in quel momento però deserto.

Nei progetti di Eddy, così lo chiamano affettuosamente gli amici, prende corpo l’idea di un colpo di Stato liberale, di un golpe bianco appunto, in grado di creare le condizioni per un governo guidato da Pacciardi e formato da autorevoli rappresentanti di tutte le forze politiche a eccezione naturalmente dei comunisti; nell’esecutivo Sogno sarà il ministro della Difesa. Egli contatta le più alte cariche militari del paese, comprese quelle dell’Arma dei Carabinieri come il generale Giovanni Battista Palumbo, comandante della divisione Pastrengo, il quale ritiene indispensabile un lancio di missili da parte della Marina Militare sul carcere di Alessandria dove, a suo dire, sono reclusi dei pericolosi comunisti; nel progetto c’è anche un generale in pensione, negli anni Cinquanta capo di stato maggiore della Difesa. Sogno sa di avere l’appoggio ideologico e morale delle massime cariche della Magistratura; anche importanti esponenti della corrente «gollista» della Democrazia Cristiana saranno della partita, ma solo a cose fatte.

Non succede nulla. Alla fine di agosto del 1974 Luciano Violante, giudice istruttore di Torino, emette ordine di perquisizione dell’abitazione di Sogno e poi lo incrimina per cospirazione politica, accusa sostenuta dal sostituto procuratore della Repubblica del capoluogo piemontese. Due anni dopo scatta l’arresto; Sogno rimane in prigione poco più di un mese e mezzo. Nel 1978 arriva il definitivo proscioglimento da tutte le accuse perché il fatto non sussiste.

Il golpe bianco, il colpo di mano cioè che avrebbe dovuto trasformare la nostra Repubblica sul modello di quella francese voluta da De Gaulle, non influenza per nulla la politica italiana: nel maggio del 1974, con la vittoria del fronte divorzista al referendum, inizia l’ascesa delle sinistre che continuerà inesorabile, toccando l’apice alle elezioni politiche del 1976, quando il PCI sfiora il 35 per cento dei consensi.

Charles De Gaulle si auto nominò capo del governo causando di fatto la fine della quarta repubblica e l’inizio della quinta: era la Francia del 1958. Era Charles De Gaulle.

 

FONTI

Sergio Zavoli, La notte della Repubblica, (trasmissione tv) Rai 1989

Aldo Cazzullo, Testamento di un anticomunista, Mondadori Milano 2000

Giorgio Galli, L’Italia dei golpe, convegno al Noir in Festival, Courmayeur 2004

Il «processo proletario» a Germana Stefanini, invalida civile e vigilatrice del reparto femminile di Rebibbia

18601480_1088248527986233_872278746_nRoma, 11 maggio 1983. Al civico 3 di via Torreglia, gli agenti della Digos scoprono un covo terroristico dei «Nuclei per il potere proletario armato», un movimento di estrema sinistra composto da giovani fiancheggiatori delle Brigate Rosse. All’interno dell’abitazione le forze dell’ordine rinvengono il drappo rosso dell’organizzazione, alcuni bossoli e una fotografia che ritrae il «processo proletario» subito alcuni mesi prima da Germana Stefanini, 57 anni, invalida civile e vigilatrice del reparto femminile di Rebibbia, uccisa con un colpo di pistola alla nuca.

La polizia arresta l’affittuario dell’appartamento, un giovane studente di architettura: Valerio Ruffo Albanese, venticinque anni, figlio di un generale dell’esercito e della preside di un rinomato liceo romano. Risultano invece autori dell’omicidio Stefanini: il ventisettenne Carlo Garavaglia e i ventitreenni Francesco Donati e Barbara Fabrizi. Saranno arrestati qualche giorno dopo durante un tentativo di rapina ad un ufficio postale.

 

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Nel pomeriggio del 28 gennaio 1983, Germana Stefanini è stata bloccata nella propria abitazione al ritorno dalla giornata lavorativa presso il carcere di Rebibbia. Dopo aver messo a soqquadro l’appartamento e prima di eseguire la condanna a morte, i terroristi hanno sottoposto la donna ad un interrogatorio. Tra i materiali sequestrati dagli agenti all’interno del covo di via Torreglia vi è anche un’audiocassetta che custodisce l’audio dell’intero «processo». Ne riportiamo di seguito alcuni momenti:

D. «Quanti anni hai?»

R. «Cinquantasette.»

D. «Sei sposata?»

R. «No.»

D. «Hai la licenza media?»

R. «No.»

D. «Che c’hai?»

R. «La quinta elementare.»

 

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D. «Perché hai scelto questo mestiere?»

R. «Perché non sapevo come poter vivere, è morto mio padre… Mio padre è morto nel ’74 e nel ’75 sono entrata a Rebibbia perché non sapevo come poter vivere.»

D. «Che funzione hai?»

R. «Come che funzione ho?»

D. «Che fai a Rebibbia?»

R. «Io faccio i pacchi.»

D. «Solo i pacchi?»

R. «Sì.»

D. «I controlli ai pacchi non li fate?»

R. «No, io è poco che ci sto ai pacchi.»

D. «Ah, è poco? Sono sei anni.»

R. «Prima lavoravo all’orto. Reparto orto di Rebibbia.»

D. «Controllavi il lavoro delle detenute?»

R. «No, lavoravo pure io. Se parli con le politiche nessuna mi dice male, a me tutte me portano così. Io le ho sempre trattate bene. Loro c’hanno l’idea loro e io la rispetto.»

D. «La rispetti chiudendole nelle celle? Facendo la vigilatrice?»

R. «Non ci sono mai andata giù [alle celle, ndr.] non mi ci mandano, come faccio a dire che succede?»

D. «Senti un po’ le trimestrali [vigilatrici assunte con contratto a termine, ndr]…dagli una sigaretta [rivolta a un altro terrorista, ndr], tu che fumi, la pipa? No, le Nazionali. Questa che è, una Merit…Andiamo avanti. Le trimestrali per rimanere che devono fà?»

R. «Un concorso.»

D. «Tu che hai fatto? un concorso?»

R. «Io sono entrata come invalida.»

D. «Perché ci sono posti riservati come ai ministeri?»

R. «Siccome mio padre era invalido di guerra…»

D. «Tuo padre era agente di custodia?»

R. «No, era idraulico.»

D. «Ma tu questo mestiere perché lo fai?»

R. «Perché, morto mio padre dove andavo a lavorare? Dovevo andare a fare la donna di servizio ma non glie la faccio.»

D. «Spiegaci come sei entrata a Rebibbia.»

R. «Ho una cugina suora e lei me l’ha detto, perché lì non dovevo fare grosse fatiche e non dovevo tenere le mani a bagno. Io risposi: “proviamo”»

D. «Tu, quando hai detto “proviamo” lo sapevi dove andavi a lavorare, no?»

R. «Io sono sempre stata appresso a mio padre e a mia madre. Ho avuto due sorelle malate, che poi sono morte, sono sempre stata a combattere con gli ospedali.»

D. «Ma è il primo lavoro che facevi, questo?»

R. «Sì, perché avevo papà invalido di guerra.»

D. «Tuo marito che stava…»

R. «Non sono sposata. Se avessi avuto marito, mi contentavo di quello che portava lui.»

D. «Tu prendi la pensione?»

R. «No, come prendevo la pensione se non ho mai lavorato?»

D. «La pensione di tuo padre invalido.»

R. «No, non me l’hanno data. Se mi davano la pensione magari non andavo a lavorare.»

D. «Ma in quell’anno della morte di tuo padre a quando sei andata a lavorare a Rebibbia come hai fatto a campare?»

R. «Andavo a mangiare una volta da una zia, una volta da una cugina, una volta da mia sorella, ma con mio cognato non vado d’accordo, mi scoccia andarci a mangiare.»

A questo punto della registrazione si odono i pianti della donna. Uno dei terroristi le dice: «Nun piagne, tanto nun ce frega un cazzo!» La donna risponde singhiozzando: «Ma ve l’ho detta la mia vita! perché ve la dovete prendere con me?» e il terrorista replica: «Te l’ho detto, nun piagne, nun me commuovi proprio!». Pochi minuti dopo, le sparano alla testa. Il corpo della vigilatrice sarà rinvenuto nel bagagliaio di una Fiat 131. I terroristi comunicheranno ai giornali l’avvenuta esecuzione «di un’aguzzina delle carceri». Nel 2007 a Germana Stefanini sarà attribuita la medaglia d’oro al valor civile e nel 2012 una strada di Roma sarà intitolata in suo onore.

Dall’ortodossia allo spontaneismo: Susanna Ronconi tra Brigate Rosse e Prima Linea

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Susanna Ronconi

Rovigo, 3 gennaio 1982, ore 15:40. Lungo via Mazzini c’è un uomo che passeggia. È il signor Angelo, sessantaquattro anni, pensionato. Stretto al guinzaglio accanto a lui c’è un cane di piccola taglia che l’uomo porta a spasso tra le strade semideserte di un capoluogo che sembra quasi sonnecchiare in quella silente domenica d’inverno. Ma è una quiete che sta per svanire. La serenità di quel pomeriggio di inizio anno viene spazzata via dal frastuono inaspettato di una raffica di mitra. Seguono piccole esplosioni, sono bottiglie molotov. Per il pensionato sbigottito nemmeno il tempo di orientarsi in quel trambusto che sopraggiunge devastante il boato finale. Quella A112 in sosta che l’uomo scorge a pochi metri è una potente autobomba che cela al suo interno oltre dodici chilogrammi di polvere nera. Una possente deflagrazione e l’esplosivo squarcia come carta stagnola un solido muro di cinta. L’edificio violato è la sezione femminile della casa circondariale: il carcere di Rovigo, sulle cui mura è stato appena aperto un varco.

Da un cumulo di macerie fumanti escono delle donne, sono quattro detenute politiche, tutte militanti di estrema sinistra. Si tratta di Loredana Biancamano, Federica Meroni, Marina Premoli e Susanna Ronconi. Una di loro è lievemente ferita: zoppica, ma ce la fa. Il signor Angelo invece no, lui non ce l’ha fatta. Angelo Furlan, falegname in pensione e padre di famiglia, muore a seguito della violenta esplosione e giace al suolo privo di vita. Rapidamente, tra nuove raffiche e colpi di pistola, le donne si dileguano scortate da un gruppo di uomini armati appartenenti ad una nuova formazione denominata «Nucleo di Comunisti», capitanata da Sergio Segio, «il comandante Sirio», noto esponente di Prima Linea, sentimentalmente legato a Ronconi.

La zona circostante nel frattempo è devastata: nelle abitazioni ci sono diversi feriti, uomini e donne che nella tranquillità della propria casa sono stati catapultati in un inferno di calcinacci, detriti, frammenti di mattoni e schegge di vetri infranti. Alcuni di loro finiranno in ospedale in prognosi riservata. In un appartamento un bambino è salvo per miracolo dopo il crollo di una finestra.

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Il muro di cinta del carcere di Rovigo

In quel Veneto segnato dalla violenza, sono i giorni di tensione del sequestro Dozier e in tutta Italia si stanno consumando nel sangue gli ultimi fuochi di una lotta armata ormai al tramonto. Gli anni di piombo stanno per chiudere il sipario; gran parte dei protagonisti dell’attacco al cuore dello Stato sono finiti dietro le sbarre, fuggiti all’estero o prossimi alla cattura: qualcun altro invece è stato ucciso, ma tra i gruppi eversivi c’è chi dimostra di avere ancora altre cartucce da sparare. Ne sa qualcosa Segio che per organizzare l’assalto al carcere ha chiesto aiuto a diversi nuclei ancora attivi sul fronte dell’eversione rossa, dalle BR ai PAC, dai COLP fino al Fronte Comunista. [1] Del resto, nell’ottica di chi fa politica con le armi, se risulta ancora tecnicamente possibile rapire un generale NATO, si può tentare il tutto e per tutto anche per far evadere delle compagne di militanza, specialmente se tra loro vi è la propria donna.

Susanna Ronconi infatti ora è libera ma a un prezzo molto alto. Un piano studiato nei minimi dettagli non è stato sufficiente: un uomo innocente è morto, un’intera famiglia ora è distrutta. In un volantino di rivendicazione rinvenuto qualche giorno dopo in un cestino dei rifiuti di Milano, i terroristi affrontano la questione in poscritto, parlando di «vittima innocente e casuale della guerra di classe» e di «imprevisto e imprevedibile (…) di cui siamo pronti a rispondere davanti a tutti i proletari». [2]

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Ronconi e Segio

Vi sono poi da considerare i feriti, persone ugualmente innocenti e inermi, senza dimenticare che in tanti hanno dovuto lasciare la propria abitazione a seguito degli ingenti danni provocati dall’esplosione. Le cronache di quei giorni parlano di cinque famiglie (circa una ventina di persone) rimaste senza casa. [3] Ma se come disse Mao «la rivoluzione non è un pranzo di gala», e la citazione riecheggia sovente nel tentativo di alleggerire i pesi di coscienza di molti attivisti che hanno imbracciato le armi, probabilmente questa volta non è così semplice fare i conti con sé stessi e con le proprie azioni.

Contro le donne evase sono stati emessi ordini di cattura con accuse pesantissime, tra le quali la più infamante in assoluto: quella di strage aggravata, rivolta in questo caso proprio ai terroristi rossi, gli stessi che affermavano di aver scelto la lotta armata per combattere un regime complice delle stragi fasciste che da Piazza Fontana avevano intriso l’Italia di sangue innocente. Ma quei militanti non ci stanno: alle stragi indiscriminate loro non vogliono essere in alcun modo accostati, nemmeno in questo caso, nemmeno dopo il tragico epilogo dell’evasione.

«Premetto che mi assumo interamente la responsabilità umana, politica e anche penale di questo fatto», scriverà Susanna Ronconi ormai in carcere in una lunga lettera inviata ai giudici, «ma non accetto in alcun modo che i suoi esiti, sebbene enormemente drammatici come la morte di Angelo Furlan, ricadano nel reato di strage». [4] Già, perché la sua libertà di evasa dura poco meno di trecento giorni, sfumando in un blitz dei carabinieri di Milano il 28 ottobre del 1982.

La trentenne veneziana, definita da alcune testate «ideologa del partito armato», aveva già alle spalle una lunga storia di militanza. Ripercorrerla a ritroso significa imbattersi in sigle come Prima Linea, Brigate Rosse, Potere Operaio. Per quanto concerne le prime due, per coincidenza o per destino, la donna ha presenziato ai primi omicidi (ufficialmente rivendicati) di entrambe le organizzazioni.

È ancora una ragazza ventitreenne quando a Padova, il 17 giugno del 1974, partecipa all’assalto BR alla sezione MSI di via Zabarella. Il gruppo, formato da cinque persone, ha l’intento di perquisire l’intera area della sezione per portare via alcuni documenti considerati importanti. L’autista del commando aspetta in auto fuori al palazzo mentre a vigilare l’edificio è stata piazzata una sentinella. Ronconi si trova nell’atrio e stringe tra le mani una borsa nella quale dovrà custodire le carte trafugate al segnale dei due compagni all’interno della sede. Le cose però vanno diversamente. Gli uomini preposti all’assalto, identificati dai giudici in Fabrizio Pelli e Roberto Ognibene, incontrano la resistenza di due militanti missini che quel giorno casualmente si trovano in sezione: Giuseppe Mazzola, carabiniere sessantenne in congedo, e Graziano Giralucci, agente di commercio e rugbista trentenne. Dopo un po’, Ronconi vede giungere i due compagni che le dicono di andare via perché l’operazione è andata male. Per la prima volta nella loro storia, le Br hanno ucciso. Caduti sotto il primo fuoco letale di quel gruppo armato, Mazzola e Giralucci rappresentano l’infranto tabù della morte per quella che sarà considerata la principale organizzazione terroristica di estrema sinistra attiva in Europa occidentale dal secondo dopoguerra.

Susanna Ronconi lascerà però le Br per approdare tra gli “spontaneisti” di Prima Linea, organizzazione che vorrebbe rifiutare la clandestinità, la rigidità gerarchica e il settarismo per restare parte integrante del movimento senza tendenze elitarie né volontà di ergersi a partito. Al di là di utopie e intenti, al di là di strategie e propositi, anche PL spara e lo fa con la stessa ferocia dei brigatisti. Alla pubblica inaugurazione di questa pratica di sangue, anche questa volta Ronconi è presente.

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Alfredo Paolella

È una mattina d’autunno del 1978 e a Napoli con lei ci sono altri quattro militanti di Prima linea. L’obiettivo è un medico, nonché docente universitario di antropologia criminale, il dottor Alfredo Paolella, membro della Commissione Nazionale per la Riforma Penitenziaria e collaboratore del magistrato Girolamo Tartaglione, ucciso soltanto il giorno prima dalle BR a Roma. È mercoledì, sono le 8:40 dell’11 ottobre e nel quartiere Vomero del capoluogo partenopeo il professor Paolella si sta recando a prelevare la propria vettura dalla rimessa Amos di via Carelli, a due passi dalla sua abitazione. Il commando è lì ad attenderlo a volto scoperto. La giovane bionda in jeans e camicia che poco prima aveva chiesto un cambio dell’olio per la sua Bianchina, estrae una pistola e spara due colpi contro il soffitto per intimidire i dipendenti dell’autorimessa che vengono invitati a farsi da parte e ad entrare subito nel box. Si fanno avanti due uomini, uno dei quali si avvicina rapidamente al professore che nel frattempo si sta accingendo a entrare in auto. Paolella viene afferrato brutalmente per la nuca e scaraventato col viso contro una colonna di cemento. I colpi di pistola rimbombano assordanti nel garage. Meno di due ore dopo, una telefonata al quotidiano Il Mattino rivendica il primo omicidio politico di Prima Linea con un’azione criminale che porta la lotta armata ad uccidere anche al Sud.

Ma perché Paolella? Perché proprio lui per quell’evento così significativo come la prima condanna a morte pubblicamente firmata dall’organizzazione? Una singolare risposta a questo interrogativo giunge nel 1982, proprio durante le ultime settimane di latitanza di Susanna Ronconi. A parlare è Alfredo Bonavita, ex militante e co-fondatore delle BR. Arrestato nel 1974 e divenuto collaboratore di giustizia dal 1981, Bonavita si definisce un «dissidente politico».

Secondo l’ex brigatista, il commando di PL che agì in quell’autorimessa fino a qualche giorno prima dell’agguato ignorava finanche l’esistenza del docente napoletano e quel delitto sarebbe stato un «furto» ai danni di una sigla concorrente, sia pur alleata e politicamente affine. Stando alle dichiarazioni del «dissidente», un agguato nei confronti di Paolella sarebbe stato ideato in origine dalle Formazioni Comuniste Combattenti e alcuni militanti di PL dopo aver scoperto il piano lo avrebbero anticipato per acquisire maggior prestigio facendo così confluire un maggior numero di militanti dalla propria parte. [5]

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Marco Donat Cattin

È noto che tra le due organizzazioni vi era stata una stretta collaborazione fino al punto di vivere l’esperienza di un «comando unificato» tra la fine del 1977 e i primi mesi del 1978, rivendicando in un’unica sigla (PL-FCC) diverse azioni, soprattutto ferimenti ai danni di forze dell’ordine. Poco dopo l’omicidio Paolella e la rivendicazione di Prima linea, le Formazioni Comuniste Combattenti firmano con la sola sigla «FCC» l’omicidio del magistrato Fedele Calvosa. Il sodalizio sembra dunque finito. Nel 1985 davanti ai giudici della Corte d’Assise napoletana, a toccare l’argomento è proprio uno dei componenti principali di Prima Linea: Marco Donat Cattin. Il «figlio ribelle» dell’ex ministro democristiano, dissociatosi dal terrorismo dopo l’arresto, è accusato di concorso morale per l’omicidio Paolella e oltre a esporre alla corte la propria estraneità ai fatti, accenna anche alla stessa questione sollevata tempo prima dal Bonavita, parlando del criminologo partenopeo come di un «obiettivo sottratto» da Prima Linea alle FCC, provocando il disappunto di quest’ultima formazione. [6]
Per questo delitto, Donat Cattin viene assolto e assieme a lui anche Bruno Russo Palombi, Paolo Ceriani Sebregondi e Sergio Segio, con quest’ultimo finito in manette meno di tre mesi dopo l’arresto della sua fidanzata che invece, riconosciuta come membro attivo del commando, è condannata per il delitto Paolella. Diciassette anni di reclusione sono la pena per quell’agguato nell’autorimessa grazie ai benefici della dissociazione alla quale la Ronconi, come del resto anche Segio, ha fatto ricorso nel 1983, anno in cui la coppia si è unita in matrimonio nel carcere delle Murate di Firenze.

Anche altre condanne si affievoliscono per i due coniugi. Lo spaventoso reato di strage indicato dall’accusa per l’eclatante evasione non viene riconosciuto e quelle raffiche di mitra contro gli agenti di custodia per la corte non costituiscono tentato omicidio. [7] Ammessa al lavoro esterno all’inizio degli anni Novanta presso un’associazione impegnata nel sociale, la Ronconi finisce di scontare la sua pena (ridotta) già nel 1998, per poi divenire protagonista di un’aspra polemica quando nel 2006 il ministro per la Solidarietà sociale, Paolo Ferrero di Rifondazione Comunista, la nomina membro della Consulta nazionale delle tossicodipendenze, incarico al quale l’ex terrorista rinuncia a seguito delle pesanti critiche. Sergio Segio, che ha alle spalle una storia criminale nella quale spiccano fatti di sangue come gli omicidi dei magistrati Emilio Alessandrini e Guido Galli, vede commutata la sua pena dall’ergastolo a trent’anni anni. Ne sconta ventidue. Attualmente è scrittore e collabora con organizzazioni umanitarie. Dal suo romanzo «Miccia corta», nel 2009 è stato tratto il film «La prima linea» con Riccardo Scamarcio nel ruolo di Segio e Giovanna Mezzogiorno nei panni della Ronconi.

FONTI:

[1] Pietro Calogero, Carlo Fumian, Michele Sartori, Terrore Rosso, dall’autonomia al partito armato, Laterza, Bari-Roma 2015

[2] Nucleo Comunista: «Siamo stati noi», La Stampa, anno 116, n.4, 6 gennaio 1982, p.7

[3] Silvano Costanzo, Susanna Ronconi è rimasta ferita fuggendo dal carcere di Rovigo. Costruiti gli identikit del commando? Stampa Sera, anno 116, n.4, 5 gennaio 1982, p.11

[4] Giuliano Marchesini, Susanna Ronconi: «L’evasione non era solo una fuga d’amore», La Stampa, anno 119, n.237, 26 ottobre 1985, p.6

[5] Guido Rampoldi, Prima Linea assassinò Paolella senza quasi sapere chi fosse, La Stampa, anno 116, numero 222, 14 ottobre 1982, pag. 7

[6] Marco Donat-Cattin: anche le FCC erano pronte a uccidere Paolella, La Stampa, anno 119, n.10, 29 maggio 1985, p.6

[7] Evasione da Rovigo, pene per due secoli, La Repubblica, 12 dicembre 1985

«Avete tutti il cervello poco sviluppato». Quella volta che Toni Negri insultò i brigatisti rischiando una coltellata

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Alcune note biografiche su Negri: «Negri Antonio (detto Tony), nato a Padova l’1.8.1933. Dal 1978 ha risieduto di fatto a Milano. Figlio di un insegnante di origine emiliana, deceduto a Padova nel 1936, è cresciuto con la madre e la sorella. Il fratello risulta essere deceduto in Jugoslavia nel 1943. Un’altra sorella morì pochi giorni dopo la nascita, a Padova, nel 1931. Nel 1961 contrasse matrimonio con Paola Meo, insegnante, con la quale ha avuto due figli. Si è laureato in lettere e filosofia a Padova nel 1956 presentando una tesi su un periodo storico tedesco. Risulta aver frequentato corsi di specializzazione in filosofia a Parigi e Tubinga. Conosce perfettamente il tedesco e il francese. Dal 1958 è libero docente di filosofia del diritto presso l’università di Padova e dal 1977 è direttore dell’Istituto di scienze politiche dello stesso Ateneo ove, prima di essere arrestato, insegnava dottrina dello Stato. Sembra abbia insegnato per un certo periodo alla Sorbona» [1]

Enrico Fenzi su Toni Negri: «Era molto nervoso e il caratteristico ghigno che gli storceva la bocca non faceva che accentuare la sua perenne concitazione. Non era facile parlargli perché non stava a sentire: interrompeva e partiva rapidamente per conto proprio» [2]

Alberto Franceschini, detenuto assieme ad altri Br nel carcere di Palmi: «Negri è l’unico qua dentro che sia davvero aggiornato e che riesce a orecchiare subito l’ultima teoria di moda all’estero. Questa è la base del potere che ha sui suoi» [3]

– Ancora Fenzi su Negri: «Sembrava sapere tutto di tutti. Per quanto ne potevo capire aveva sempre avuto informazioni dirette e continue, sapeva benissimo che cosa facevano o non facevano gli autonomi e sapeva da tempo di me, della mia appartenenza alle Br. Abbinava, con loquacità e malignità tutte venete, il gusto sfrenato del pettegolezzo accademico con quello del pettegolezzo politico e io lo stavo a sentire travolto e divertito» [4]

 

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Voci nel carcere di Palmi: «Ieri Negri è stato dodici ore col magistrato che l’interrogava! Che cosa gli avrà detto?». «La settimana scorsa si è fatto otto ore, per due giorni di fila… e ha fatto ormai migliaia di pagine di verbale» [5]

Negri: «Non avete capito nulla. Non sono io: sono loro!». Loro, cioè i brigatisti.

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Enrico Fenzi

Perché Negri era stato buttato nella fossa dei leoni, tra «i terroristi veri»? Poteva non essere una scelta meramente amministrativa quella che aveva messo insieme un gruppo come quello del «7 aprile», che si proclamava in toto innocente e che da questa innocenza partiva per una ricostruzione propria degli anni Settanta, e l’insieme più largo che raccoglieva militanti delle più grosse organizzazioni armate. Una provocazione verso gli uni e gli altri? Mettiamoli nei guai e vediamo che succede. Ma allora: chi come Negri organizzava una così grossa operazione di sganciamento non collaborava di fatto con il Ministero? [6]

I detenuti comuni che simpatizzavano per le Br già cominciavano a meravigliarsi di tanta tolleranza. Ci fu chi propose in perfetta buona fede: «Se vi fa troppi problemi dargli una coltellata, ci pensiamo noi più che volentieri» [7]

Negri rischiava sul serio, anche se abbastanza sventatamente sembrava non rendersene conto. Mancava tuttavia l’elemento decisivo, l’occasione che avrebbe potuto far precipitare di colpo la situazione.

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Curcio, Franceschini, Bertolazzi e Fenzi, insieme in un cameroncino a quattro posti. Franceschini torna dall’aria con una copia del quotidiano genovese «Il Lavoro». Lo butta sul tavolo e dice:«Ecco qua. C’è una lunga intervista di Negri. Volevano tenercela nascosta, se ne sono ben guardati dal parlarne». Nell’intervista si rivolge a quello Stato che lo tiene in carcere: «Sono un uomo di confine», sembra dire Negri, «uno che guarda oltre e che può aver avuto rapporti con parte delle forze che confusamente aggrediscono la società, ma solo per controllarle meglio e domarne la capacità distruttiva riconducendo a un ruolo paraistituzionale quella energia sociale che, per così dire, sovrabbonda in periodi di rapida trasformazione e che per sua stessa natura non può trovare sfogo lungo i tradizionali canali della rappresentanza politica» [8]

Franceschini su Negri: «E poi sapete che cosa mi ha detto l’altro giorno? Che noi brigatisti abbiamo tutti un cervello poco sviluppato!» [9]

L’aria attorno a Negri si fa elettrica. Per il carcere gira una sola parola d’ordine: lo si è finalmente scoperto e bisogna fargliela pagare. E’ però chiaro che nessun brigatista vuole che una cosa simile accada davvero: è inaccettabile, rischioso, incomprensibile fuori dalle mura del carcere. Un modo di cadere nella trappola. Come giustificare una tale enormità? E quali conseguenze? Insomma, non si può ammazzare uno solo perché vuol mettere la maggiore distanza possibile tra sé e le Br e perché ha riempito pagine e pagine di verbale di chiacchiere innocue. Uno che nelle Br non ci è mai stato.

Altro motivo per non uccidere Negri: a Palmi non si sta male. Nella testa dei capi Br quel carcere può essere qualcosa a metà strada tra l’università e il quartier generale della lotta armata. Per garantire tutto questo bisogna assolutamente evitare gli omicidi.

«A Palmi si studia non si lotta!», hanno detto per anni i detenuti delle altre carceri speciali, in tono di rabbia e di accusa, e con una punta di invidia: il modello positivo, dove si lottava, che viene contrapposto a Palmi è per molto tempo Nuoro.

Resa dei conti tra Franceschini e Negri: «Una mattina ci siamo trovati meno numerosi del solito al passeggio. Una quindicina. C’era anche Negri e c’era Franceschini. Era l’occasione buona. Hanno cominciato a parlare di chissà cosa. Il tono è salito di colpo e già Negri stava all’angolo, le spalle al muro, terreo. Franceschini lo chiudeva puntandogli il dito addosso e lo insultava. Freddamente, con determinazione. Ci siamo stretti attorno a loro per non perdere nulla della rissa improvvisa, ma era una rissa strana a senso unico. Franceschini si muoveva come se fosse sulla pedana di un piccolo palcoscenico: partiva all’assalto col braccio teso, la bava alla bocca, e gli piantava addosso i suoi insulti come coltellate. Si ritirava poi di un passo o due, gli voltava la schiena, lo guardava di traverso, sopra la spalla, senza minimamente curarsi di ascoltare quello che l’altro diceva e ripartiva implacabile all’attacco. Avanti e indietro, come una grossa mazza, una ruspa che avesse da sbancare un monte, da tirar giù un muro… Negri era inchiodato nel suo angolo, con la faccia di uno che sta annegando. Ribatteva affannosamente qualcosa, per sé, non per gli altri perché nessuno di quelli che gli puntavano gli occhi lo stava a sentire. Era solo per prendere fiato per respirare nel breve intervallo tra le ondate successive che si abbattevano su di lui» [10]

Franceschini a Negri: «Io t’ho capito… tutti ormai hanno capito: tu vuoi fare il Malher della situazione, buttarti con lo Stato venderti il movimento per i tuoi sporchi interessi… ma se tu sei Malher ti giuro che io non sarò Baader… e prima che mi facciano fuori ti scanno io con le mie mani!» [11]

Negri è salvo e in fondo agli occhi di Franceschini che conclude con grandi gesti la sua furente sceneggiata è nascosto un filo di allegria. Da quella mattina Negri comincia a vedersi pochissimo all’aria e a starsene per conto proprio: lì la sua storia e le sue faccende finiscono di significare qualcosa.

Alfredo Buonavita su Negri: «Il problema, secondo noi, era che Negri fosse stato mandato a Palmi per creare la guerra tra noi e l’Autonomia. Infatti eravamo 45 delle Br, 7 o 8 comuni e 5-6 membri della Autonomia tra cui Negri e Ferrari Bravo. Secondo noi c’era un chiaro intento di far succedere una rissa» [12]

«La differenza tra Curcio e Negri? Curcio andava, Negri mandava ad espropriare e, nello stesso tempo, cercava finanziamenti dal CNR». Spiegazione: «E’ negli atti processuali. Ebbe 45 milioni, 45 milioni di una volta». [13]

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Oreste Scalzone e Franco Piperno

Al volantino rivendicante l’omicidio del maresciallo Taverna era allegato l’opuscolo di 29 pagine intitolato «Brigate rosse n.7 luglio 1979: dal campo dell’Asinara» contenente un attacco a Valerio Morucci e Adriana Faranda definiti «neofiti della controguerriglia psicologica, poveri mentecatti utilizzati dalla controrivoluzione». Il documento, conteneva anche un duro attacco al «barone Piperno» e a tutti i sedicenti autonomi (tra cui Pace, Piperno e Negri), definiti «piagnucolose educande che dalla tranquillità delle loro cattedre e delle loro riviste incitavano i proletari detenuti alle lotte più truculente e oggi, timidi agnellini, affidano allo sciopero della fame la loro rivendicazione di innocenza» [14]

Negri«Essere militante significa giocarsi tutto» [15]

Uccidere Toni Negri, il teorico dell’autonomia operaia e della violenza politica. Parla Cecco Bellosi, brigatista della colonna milanese: «Questa ‘fibbia’, termine che in gergo carcerario è l’ordine di eliminare qualcuno, ha determinato la fine della mia militanza. Dopo la richiesta assurda di uccidere Toni Negri ho deciso che era ora di dire basta con una ‘storia’ che stava finendo male. La ‘fibbia’ mi è giunta in modo verbale, ovviamente in modo cifrato quando ero nella sezione di massima sicurezza di Rebibbia. Ero considerato un irriducibile. Altri imputati, tra cui Toni Negri, erano invece in un altro braccio della prigione, ma avevamo comunque possibilità di incontrarci in aula.
Ho immediatamente respinto la richiesta di eliminare Negri e da lì ho preso la decisione di chiudere per sempre quel capitolo.
Questo non ha comportato rischi per me, anche perché le Br ormai erano allo sbando e divise in più fazioni.
Io appartenevo alla colonna milanese autonoma e non avevo obblighi verso il gruppo centrale. Ho anche avvertito Toni Negri di guardarsi le spalle, ma l’idea folle di eliminarlo è stata comunque vanificata dalla disgregazione delle Br» [16]

Toni Negri sulla sua detenzione a Palmi: «Quando mi trovo in prigione mi accusano di 17 omicidi, Moro compreso, e vengo riconosciuto come qualcuno che aveva partecipato a via Fani. In pratica mi accusano di essere il capo delle Br. In una prima fase, questi (i giudici, ndr) erano convinti che noi fossimo i capi delle Br: quindi ci misero assieme ai brigatisti. Il rapporto con loro è stato fin dal principio molto polemico. C’è stato uno scontro, avvenuto in due occasioni: il primo nel carcere di Palmi, in Calabria, nel quale io ho subito un processo da parte dei brigatisti e sono stato condannato a morte (ride, ndr). In realtà facevo i discorsi che avevo sempre fatto e cioè: la questione Moro era una questione demenziale e suicida. Il secondo punto era sulla RAF: dicevo che certamente i compagni in carcere erano stati uccisi, ma, con tutta probabilità, lo desideravano perché il movimento era finito. Tutta l’operazione terroristica europea era un’operazione fondamentalmente suicida. Bisognava quindi trattare e fare la pace. Per questo mi sono portato dietro la fama del traditore, per alcuni anni, anche se poi lì è iniziato il fenomeno del pentitismo: a quel punto era difficile chiamare Negri ‘traditore’, quello stesso Negri che non si era mai pentito, non diceva nulla, rifiutava gli interrogatori con i giudici (ride, ndr). Quello che a Palmi era il pm delle Br è diventato un grandissimo pentito (si riferisce a Franceschini e sghignazza, ndr). Capisci? Io ora ho tutta la mia dignità ancora intera mentre gran parte di questi l’hanno perduta» [17]

FONTI:

[1] Ministero dell’Interno, direzione generale della pubblica sicurezza, pag. 457, volume CVIII, Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia

[2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11] Enrico Fenzi, Armi e bagagli, Egg

[12] volume X, pagina 580 Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia

[13] Il generale Dalla Chiesa intervistato da Enzo Biagi: pagina 771, volume terzo, tomo VII Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2

[14] pagina 460, volume LIV, Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia, atti giudiziari processo Moro bis)

[15] pagina 69, volume LXII, Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia

[16] archivio900.it, Quando mi chiesero di uccidere Toni Negri, L’ex brigatista di Colonno ricorda anche l’espatrio clandestino di Giangiacomo Feltrinelli

[17] Toni Negri – L’eterna rivolta – parte 3 (video disponibile su You Tube)

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Rapimento Sossi: chi fingeva di non capire e chi aveva capito (molto)

Mario Sossi, prigioniero delle Brigate rosse

Mario Sossi, prigioniero delle Brigate rosse

Tra le prime esercitazioni di disinformazione attuate dalla stampa italiana durante gli anni del terrorismo non si può non citare il caso del lungo sequestro di Mario Sossi, il sostituto procuratore prelevato a Genova, il 18 aprile 1974, da un commando delle Brigate rosse. Nonostante la ormai quadriennale “attività” delle Br sullo scenario italiano molti organi di stampa continuavano a condividere un atteggiamento prudente, se non scettico, circa gli effettivi responsabili di questa e altre simili operazioni. Non si credeva, insomma, che una formazione armata in Italia potesse far propria l’ideologia marxista-leninista: le Brigate rosse non potevano che essere “sedicenti”, forse “fasciste”, di sicuro “al servizio della strategia della tensione”. Mario Sossi, nella prima metà degli anni 70, si era reso protagonista di una serie di inchieste ad alto contenuto politico acquisendo una fama di giudice implacabile presso gli ambienti dell’estrema sinistra: si pensi al processo alla banda “XXII Ottobre”, nel quale l’allora giovane pubblico ministero riuscì ad ottenere pesantissime condanne. Ed è per questo carattere di inflessibilità, un ostentato atteggiamento “da duro”, che Sossi diventa presto un obiettivo dichiarato di gruppi più o meno armati operanti nella vasta area di “contiguità” al terrorismo. Chi erano questi brigatisti? I nomi, già conosciuti presso le questure perché numerosi erano stati i precedenti sequestri di persona a scopo politico, dovevano essere piuttosto familiari a quei giornali di partito che continuavano a definire le Brigate rosse “sedicenti”.

Ancora nel 1974 le Br erano per tanti organi di stampa un mistero. Di sicuro non erano “rosse”, ma forse “nere”: riflessione condivisa non solo dal maggiore giornale della sinistra italiana – l’Unità – ma anche dai quotidiani “borghesi”, all’interno dei quali vanno però segnalate posizioni più sfumate, vere aree di pensiero laico, come quella dell’allora quarantenne Andrea Barbato: gli elementi da collazionare per giungere a conclusioni sostanzialmente esatte, circa gli obiettivi e la reale natura delle (non presunte) Brigate rosse, c’erano tutti già da allora e Barbato lo dimostra.

 “La Stampa”, 30 aprile 1974.

Il “processo proletario” contro il giudice Sossi, prigioniero delle Brigate rosse dal 18 aprile, continua. I rapitori tacciono, dopo il laconico e minaccioso messaggio di tre sere fa; la polizia dispone solo di magri indizi, la scoperta del nascondiglio appare difficile. Non solo questo sequestro è ormai il più lungo fra quelli firmati dalla formazione che ha per simbolo la stella asimmetrica, ma sembra evidente che esso segni una svolta nella tattica e nel comportamento del gruppo clandestino. Sossi è interrogato da undici giorni: un tempo non solamente interminabile per la sofferenza umana del recluso, ma anche così lungo da rivelare le intenzioni dei rapitori. Non siamo più dinanzi ad un atto “esemplare” di punizione di un avversario. Se la prigionia e il processo si prolungano tanto (e non vi sono segni che annuncino la fine) se si sfida con tanta sicurezza il rinnovato attivismo della polizia, è perché i “brigatisti rossi” si attendono veramente di strappare qualche rivelazione al magistrato. Esigono da lui, oltre a una serie di particolari tecnici e sostanziali sulle istruttorie che riguardavano i loro “compagni di lotta” anche una testimonianza ideologica che colori di dubbi politici le istruttorie stesse. In che misura Sossi collabora con questo proposito dei suoi carcerieri? Dalla lunghezza della detenzione, si dovrebbe dedurre che le sue “deposizioni” sono insoddisfacenti. “Sossi è un uomo di forte spirito legalitario”, ha detto stamane il funzionario che guida le indagini (quel dottor Umberto Catalano anch’egli menzionato nel volantino di venerdì notte) “probabilmente parla poco. Per lui collaborare significa certamente violare dei segreti, compiere un atto illegale”. Ma il punto più importante è un altro. Il sequestro di Sossi somiglia certamente, per le tecniche e l’ideologia che le accompagnano, alle precedenti gesta delle Brigate rosse che vanno dal rapimento di Idalgo Macchiarini a quello di Enrico Amerio. Ma stavolta le Brigate rosse escono dal mondo delle fabbriche in cui si erano finora aggirate e investono in pieno l’apparato dello Stato per impadronirsi di suoi eventuali meccanismi nascosti, di presunti segreti nella sua struttura. Non è più un “mordi e fuggi” com’era scritto in un cartello appeso al collo di una delle vittime; e non è neppure la rozza filosofia contenuta nello slogan “colpiscine uno per educarne cento”. Qui siamo all’assalto al “cuore dello Stato” o più ancora assistiamo passivamente a una contro-indagine. Le Brigate rosse non si contentano di compiere un attentato a fini dimostrativi, ma vogliono esibire una loro costruzione, sia pure coatta, della verità.Quale verità? Finora tra i molti fascicoli processuali di cui Sossi è chiamato a rispondere davanti ai suoi sequestratori si sa solo che è stato aperto il “dossier” del rapimento di Sergio Gadolla. Il caso è lontano, giudicato e chiuso. Riaprirlo significa cercare un corpo per quelle ombre che non furono certo taciute al tempo delle indagini e del vero processo. Fu proprio Mario Rossi al dibattito che lo vedeva imputato e che gli valse l’ergastolo ad affermare che “Sergio Gadolla era venuto con noi spontaneamente”. Le zone d’oscurità di quella vicenda furono a suo tempo ampiamente discusse in aula e sui giornali: perché Sergio Gadolla si presentò in libertà asciutto e inappuntabile, dopo quella che doveva essere una marcia sui monti sotto pioggia alluvionale? E quale fu il ruolo del missino Vandelli, creditore di grosse vincite al gioco che temeva di non incassare, nella organizzazione del rapimento? E oltre ad una deferenza di tipo “sociale” c’era qualche altro legame tra l’allora commissario Domenico Nicoliello (oggi capo della mobile di Genova) e la famiglia Gadolla? E’ probabilmente su queste linee e su questi dubbi forse appresi dalle cronache del tempo, che insistono i rapitori di Sossi nel loro interrogatorio. “Non ha nulla da rivelare nella sua borsa non c’era nessun documento segreto” ripetono magistratura e polizia genovesi. Non siamo ormai dinanzi ad un atto di guerriglia, compiuto da militanti che si considerano rivoluzionari, a sinistra di ogni sinistra. L’attività delle Brigate rosse compie una scalata, un salto decisivo. Non è più l’azione pseudopartigiana, il sabotaggio della vita di fabbrica e dei contratti di lavoro, la battaglia dichiarata al neofascismo, la lotta ai partiti e ai sindacati. I brigatisti rossi si trovano obiettivamente collegati con quelle formazioni Gap, più decise nell’attivismo clandestino, dei cui componenti chiedono oggi la liberazione dal carcere. Ora il programma politico delle Brigate rosse sembra ancor più “avanzato” dell’intenzione iniziale di “eliminare” i poliziotti, espropriare i capitalisti. Persino l’estrema sinistra extraparlamentare, divisa nella diagnosi del fenomeno, non è divisa nel giudizio. Alcuni li ritengono dei provocatori, prevedono che la liberazione di Sossi avverrà dopo il 12 maggio, li disegnano perfettamente inseriti in una strategia che vuole contrapporre la violenza rossa alla violenza nera per dimostrare la debolezza dello Stato e per invocare poi la mano forte. Altri, invece, ammettono che la matrice delle Brigate rosse è la lotta di classe, che la scuola politica è quella della sinistra, sia pure estrema; ma anche questi ultimi concludono con una condanna dei metodi e della sostanza. I “brigatisti” insomma anche per la sinistra extraparlamentare formulano un’analisi di classe della società italiana ma poi la intingono nel pessimismo e nella disperazione. Non credono nella consistenza del movimento operaio e perciò pensano di dover ricorrere alla lotta armata. Il “processo proletario” non colpisce più soltanto con il suo rito sommario (rapimento, giudizio, sentenza) i presunti strumenti dell’”oppressione capitalistica” ma giunge a giudicare i giudici. E’ una fase nuova della “clandestinità armata” di queste ambigue formazioni. Le Brigate rosse si considerano in guerra non sono con i “padroni” ma anche con lo Stato. E’ doveroso constatare che la risposta, finora, è incerta a tutti i livelli. La polizia dispone di piste scarse, la magistratura genovese sembra attendere d’essere sollevata dal peso dell’indagine. Il ruolo di altri corpi investigativi rimane misterioso: due colonnelli del controspionaggio militare sono a Genova. Il Sid ha avuto certamente un ruolo nell’indagine sulle Brigate rosse, ma quale? Secondo alcuni il servizio segreto della difesa starebbe addirittura cercando eventuali collegamenti tra le Brigate rosse e la fascista Rosa dei venti; secondo il volantino numero tre delle stesse Br, il Sid avrebbe invece collaborato con Sossi nei “processi di regime” contro il gruppo XXII Ottobre. La città (Milano, Torino, ora Genova) “centro del sistema” è anche il miglior terreno di guerriglia e il più sicuro nascondiglio. Per un’altra giornata oggi le pattuglie hanno cercato inveno e tutti abbiamo aspettato inutilmente che giungesse un altro messaggio. La polizia non fa nomi, i giudici non vogliono ripetere gli errori del passato e non indicano “colori” nelle piste, il procuratore capo ripete che non firmerà mai “mandati in bianco”. I “brigatisti” latitanti sono una mezza dozzina, se ne conoscono i nomi, se ne indicano le gerarchie e i ruoli interni. Ma anch’essi si ripete, sono ricercati solo per gli antichi reati. Sulle colline e nelle vallate dell’entroterra gli uomini dei reparti “speciali” non hanno trovato finora che cascinali abbandonati.

Andrea Barbato

Ricordando via Fani: i servizi hanno ancora i loro segreti

Alfetta, via Fani 16 marzo 197816 marzo 1978, ore 8,45. L’auto dell’onorevole Moro, una Fiat 130 blu ministeriale, è come sempre sotto l’abitazione del presidente Dc, in via del Forte Trionfale 79. A comporre la scorta, oltre al maresciallo Oreste Leonardi, l’appuntato Domenico Ricci, il vicebrigadiere Francesco Zizzi, le guardie di pubblica sicurezza Raffaele Iozzino e Giulio Rivera. Zizzi è lì per caso: sostituisce un collega in ferie.

Negli stessi istanti nei quali Leonardi e gli altri attendono Moro, i componenti del gruppo di fuoco brigatista arrivano in via Mario Fani e si dispongono, travestiti da avieri, dietro le siepi del bar Olivetti posto all’incrocio con via Stresa e chiuso per lavori. Mario Moretti aspetta in via Sangemini (traversa di via Fani) dentro una Fiat 128 con targa diplomatica. Nella zona, a bordo di un’altra 128, stazionano, con funzioni di appoggio, Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri. Sempre in via Fani, ma dall’altra parte dell’incrocio, c’è Barbara Balzerani, armata con mitraglietta Skorpion di produzione cecoslovacca. Bruno Seghetti è a bordo di una 132 blu, pronto a trasportare Moro dopo l’azione.

La scorta parte da via del Forte Trionfale in direzione via Trionfale, poi svolta a sinistra. Moretti scivola con la sua 128 verso via Fani rallentando la corsa della 130 di Moro e dell’Alfetta; all’incrocio con via Stresa, in prossimità del bar Olivetti, quasi si ferma. E’ in questo istante che Morucci, Fiore, Bonisoli e Gallinari coprono i cinque metri di carreggiata necessari a portarsi a ridosso delle auto e iniziare a sparare. Morucci e Fiore tirano verso la Fiat 130, colpendo sia il caposcorta Leonardi che l’autista Ricci, mentre Bonisoli e Gallinari si occupano dell’Alfetta. L’immediato ferimento dell’autista di quest’ultima auto genera il rilascio della frizione e il tamponamento che porterà la 130 a picchiare a sua volta sulla 128 di Moretti. I mitra di Morucci e Fiore si inceppano ed è in questo istante che Domenico Ricci, l’autista della 130, cerca di liberare il proprio mezzo verso una via di fuga che non esiste perché il lato destro è occupato da un’altra auto, una Austin Morris. Lo stesso Ricci viene fulminato da Morucci che, nel frattempo, ha recuperato l’efficienza della sua arma. Gli altri componenti conosciuti del commando, ovvero Balzerani, Casimirri e Lojacono presidiano l’inizio e la fine di via Fani (incrocio con via Stresa).

Annientata la scorta, Fiore e Moretti agguantano Moro e lo guidano verso l’auto di Seghetti che poi parte a tutta velocità in direzione via Trionfale. A prendere due delle cinque borse di Moro è forse Morucci, poi fuggito da via Fani con una 128.

Il convoglio brigatista si immette in via Trionfale in vista di via Casale De Bustis il cui accesso bloccato da una catena viene reso fruibile grazie a dei tronchesi. Il trasbordo di Moro avviene forse in piazza Madonna del Cenacolo con il presidente Dc posizionato in una cassa collocata dentro un furgone guidato da Moretti. Un secondo trasbordo del prigioniero dentro una Citroen Ami8 avviene nel parcheggio sotterraneo della Standa dei Colli Portuensi; da qui Moretti e Gallinari trasportano Moro in via Montalcini 8, presso l’appartamento acquistato da Anna Laura Braghetti opportunamente attrezzato per la detenzione.

Si è spesso ipotizzata la presenza in via Fani di un tiratore scelto, che avrebbe permesso ai brigatisti di sopperire alla propria inadeguatezza militare. Dei 97 bossoli ritrovati 49 sarebbero di una sola arma; prova della presenza di un killer magari prestato dalla criminalità organizzata. In realtà soltanto 19 di questi 49 proiettili sono andati a segno, mentre i restanti 30 non hanno centrato né le auto né i componenti della scorta. La stessa possibilità che i 49 colpi siano stati sparati dalla medesima arma (un FNAB-43, dove il numero sta per l’anno di fabbricazione) è messa in forse da una seconda perizia risalente agli anni 90. Relativamente all’ipotesi del tiratore scelto si è pensato a un coinvolgimento della ‘ndrangheta, sulla base dei viaggi compiuti da Moretti nel sud e di una intercettazione tra il deputato Dc Cazora e Sereno Freato, segretario di Moro: telefonata nella quale si insiste sulla necessità di recuperare le foto scattate poco dopo l’agguato da un residente in via Fani, Gherardo Nucci. Gli scatti verranno consegnati alla magistratura dallo stesso Nucci e mai più ritrovati. Un nome per identificare il super killer è stato fatto: Giustino De Vuono, personaggio legato alla mafia calabrese, ex componente della legione straniera, finito in carcere per vari reati tra cui il rapimento e l’uccisione di Carlo Saronio a Milano nel 1975. De Vuono si sarebbe convertito alle Br in carcere e una volta evaso godrà di una strana libertà di azione: frequenti viaggi da e per il sud America grazie alla protezione dei nostri Servizi che di fronte alle richieste di informazioni delle autorità locali opporranno sempre uno stretto riserbo. Ancora nel settembre del 1979 si ha ricordo di lui in Italia, come testimoniano le pagine dell’Unità che descrivono una sparatoria avvenuta nel litorale tirrenico, tra le province di Catanzaro e Cosenza, nei pressi di un posto di blocco. Gli stessi articoli descrivono De Vuono come personaggio con un ruolo chiave nel rapimento e nell’uccisione di Moro.

Un altro degli elementi spesso ignorati di via Fani è la Austin Morris parcheggiata sul lato destro della strada in perfetta coincidenza con il luogo del tamponamento tra le auto della scorta e la 128 di Moretti. Il dato centrale è la targa dell’auto che, secondo la giornalista Stefania Limiti, ne indica la riconducibilità a una società legata ai servizi segreti: il veicolo sarebbe stato acquistato dalla ditta Poggio delle Rose, con sede presso l’Immobiliare Gradoli proprietaria tra l’altro di alcuni appartamenti presso il civico 96 della via Gradoli nella quale verrà scoperto il famoso covo brigatista.

I servizi segreti (italiani e stranieri) sapevano dei preparativi per il sequestro Moro?

Il KGB mise sulle tracce del politico Dc un finto studente di storia risorgimentale, formalmente in Italia grazie a una borsa di studio: si tratta di Sergey Solokov, classe 1953, ufficiale del dipartimento V del KGB quello dedito, secondo il giornalista del Daily Mail Brian Freemantle, alle azioni speciali. Approdato a Roma nel settembre ‘77 e “attenzionato” dal SISMI durante tutto il suo soggiorno in Italia, Solokov, condusse una vera e propria indagine sulle abitudini e gli spostamenti del leader democristiano allarmando Franco Tritto, uno dei più stretti collaboratori di Moro. Tra l’altro era strano che uno studente di storia seguisse con così tanta costanza le lezioni di diritto e procedura penale di Moro. Solokov farà ritorno a Mosca nel luglio 78. Negli anni 80 frequenterà ancora l’Italia come redattore della TASS.

E’ quasi certo che il KGB fosse a conoscenza delle mosse delle Br grazie alla STASI che, a sua volta controllava la RAF tedesca (in stretti rapporti con i brigatisti italiani). La tecnica “a cancelletto” utilizzata per l’assalto di via Fani è la copia di quella utilizzata dalla RAF per rapire nel settembre 77 Martin Schleyer, capo degli industriali tedeschi. Le stesse dichiarazioni di Patrizio Peci, il primo e più importante pentito delle Br, evidenziano i collegamenti tra tedeschi e italiani mantenuti, inizialmente, da Lauro Azzolini e poi da Moretti in persona. Nella risoluzione strategica del ‘78 le Br sottolineavano la necessità di sviluppare la cooperazione con altri elementi dell’internazionalismo proletario, quali l’IRA, l’ETA e la stessa RAF (in pratica il passaggio a una concezione internazionale della guerriglia). Recentemente sono state trovate negli archivi della STASI delle schede informative su tutti i leader brigatisti, a dimostrazione dell’interesse nutrito dal servizio segreto tedesco-orientale per le vicende italiane.

Su un totale di oltre 54 mila pagine riguardanti il caso Moro depositate nell’archivio storico del Senato, sono ancora 15 mila quelle classificate, non essendo stato emanato il regolamento attuativo di riforma dei servizi segreti che dovrebbe disciplinare la materia. Proprio per questo AISE e AISI, eredi di SISMI e SISDE, a quasi 40 anni dagli eventi, si oppongono alla declassificazione dei loro atti non contribuendo di certo a fare chiarezza su un evento chiave della nostra sanguinosa storia repubblicana.

Patrizio Peci, il primo pentito delle Brigate rosse

Peci fu aiutato nel suo pentimento da alcune quaglie ripiene, due etti di prosciutto crudo, due paia di slip e calzini nuovi più un fumetto di Tex, di Topolino e un numero della Settimana enigmistica. Farà ridere, ma la strada alla sconfitta del terrorismo italiano è stata aperta anche da un peccato di gola 

(Maresciallo Angelo Incandela, ex comandante delle guardie carcerarie dello Speciale di Cuneo in una intervista al Corriere della Sera del 1994)

Patrizio Peci, a processo

– Patrizio Peci nasce a Ripatransone, vicino Ascoli Piceno; si trasferisce, ancora bambino, con la famiglia a San Benedetto del Tronto

– A partire dal 1970 inizia a frequentare la Rotonda del Lungomare, presso Benedetto del Tronto, luogo di aggregazione politica ma anche di spaccio

– Dopo un breve passaggio in Lotta Continua, dà vita ai PAIL (Proletari Armati per la Lotta)

– Nel 1976 partecipa all’assalto della sede Confapi di Ancona. Dopo questa azione entra in clandestinità. Sale al nord e dopo una tappa a Milano si trasferisce a Torino.

– A Torino fa da luogotenente a Raffaele Fiore (uno degli uomini presenti in via Fani); dopo l’arresto di quest’ultimo, avvenuto nel 1979, diviene responsabile della colonna torinese Mara Cagol, fino all’ arresto avvenuto nel 1980

– Dall’assassinio di Carlo Casalegno a quello del presidente dell’ Ordine degli Avvocati, Fulvio Croce, agli attentati contro uomini FIAT, contro le Forze dell’Ordine e contro esponenti della Democrazia Cristiana, si contano, in tutto, otto omicidi e diciassette ferimenti nei quali Peci ha svolto quasi sempre il ruolo di organizzatore e spesso di esecutore. Nel 1986 torna in libertà dopo un periodo di detenzione presso il carcere di Alessandria.

– Nel 1977 la direzione della colonna di Torino è formata da Raffaele Fiore (capo), Nadia Ponti, Cristoforo Piancone, Patrizio Peci, Rocco Micaletto. L’unica donna, la Ponti, scandalizzava gli altri componenti della direzione per il suo comportamento. «Girava in casa mezza nuda – racconterà Peci a Giordano Bruno Guerri – da questo punto di vista la sua condotta era scorretta. Non perché io sia un moralista ma perché sventolare così le tette sotto il naso di chi è magari mesi che non tocca una ragazza non è né corretto né gentile». La Ponti, fidanzata col romano Piancone, viene descritta come una esaltata. Sarebbe entrata nelle Brigate rosse più per spirito di avventura che per reale fede politica: «Qui mi si aprono prospettive che in una vita normale non sarebbero possibili», avrebbe detto.

– Il 22 aprile 1977 Peci partecipa alla gambizzazione di Antonio Munari, capo officina FIAT. L’azione viene rivendicata due giorni dopo

– Il 30 giugno 1977 prende parte alla gambizzazione di un altro dirigente FIAT, Franco Visca, che viene colpito anche alla milza

– Il 25 ottobre gambizza un militante della Democrazia Cristiana, Antonio Cocozzello

– Il 16 novembre 1977 partecipa al pedinamento e all’uccisione di Carlo Casalegno, vice direttore de La Stampa. Il giornalista viene colpito da diversi colpi di arma da fuoco (una pistola Nagant M 1895) al volto ma nonostante le ferite non muore subito, venendo trasportato all’ospedale Le Molinette. Le manifestazioni di solidarietà indette a Torino, nell’imminenza dell’agguato, non godono di grande partecipazione e tra gli operai FIAT è vasta l’indifferenza per le sorti di Casalegno, che morirà dopo 13 giorni di agonia il 29 novembre.

– Secondo Peci, Casalegno sarebbe stato condannato a morte (nonostante gli iniziali propositi di gambizzazione) dopo alcuni sprezzanti giudizi espressi nei confronti dei militanti della Rote Armee Fraktion (RAF) morti in circostanze poco chiare nel carcere di Stammheim, la notte del 17 ottobre 1977.

– Il 18 ottobre 1980 viene arrestato dai carabinieri del generale Dalla Chiesa, assieme a un altro brigatista, Rocco Micaletto. Le sue rivelazioni porteranno all’individuazione del covo di via Fracchia, a Genova.

– L’arresto di Peci e le oscure modalità che lo caratterizzarono, saranno fonte di tragici risvolti per la famiglia Peci e soprattutto per il fratello Roberto. Le Brigate rosse, in particolare, penseranno a “un doppio arresto” di Peci, il primo avvenuto su delazione di suo fratello e il secondo compiuto con maggiore clamore mediatico. Nel periodo tra i due arresti, Patrizio Peci avrebbe in pratica agito da infiltrato all’interno delle Brigate Rosse.

– A seguito di queste convinzioni, Roberto Peci, 25 anni, antennista, viene rapito dalle Brigate rosse dell’ala capeggiata da Giovanni Senzani. La mattina del 9 giugno 1981 riceve la telefonata di una persona che sostiene di essere un ingegnere di Macerata che, per il giorno successivo, gli chiede di installare un’antenna presso il villino di sua proprietà collocato in via Boito. Lì Peci trova invece una 127 rossa pronta ad aspettarlo. Seguirono giorni di trattative, contatti telefonici, appelli. Roberto Peci viene trucidato (il 3 agosto 1981, con undici colpi di arma da fuoco), dopo un lungo periodo di detenzione (55 giorni) e processo proletario nel quale gli vengono contestate le accuse di tradimento e delazione. La “confessione” del prigioniero verrà filmata e distribuita presso i canali clandestini, con più di vent’anni di anticipo rispetto alle pratiche che poi caratterizzeranno il terrorismo di marca islamista.

– Patrizio Peci esce dal carcere nel 1986. Attualmente vive in una località segreta con falso nome. Nel 2008 viene diffuso un film-documentario intitolato L’infame e suo fratello: inizialmente mandato in onda dalla tv svizzera, verrà ripreso nel programma RAI La storia siamo noi.

Alcune dichiarazioni di Patrizio Peci:

«Se avessi immaginato che finiva così avrei fatto i miei anni di carcere e Roberto non lo avrei sulla coscienza. Roberto era buonissimo, ma è sempre stato d’ accordo con tutte le mie scelte. Prima la contestazione, poi la lotta armata e infine la dissociazione» (Da una recente intervista su Oggi)

«La plastica facciale non sarebbe servita. Uno come me, con un´esperienza da clandestino nelle Brigate rosse, sa che per sparire il miglior nascondiglio è vivere tra la gente. Ormai sono un´altra persona, che vive e fa cose diverse, che ha una famiglia, un figlio. Nessuno avrebbe creduto che mi sarei salvato. All´inizio è stata dura, molto dura. All´epoca le Brigate rosse erano ancora forti e il rischio che mi trovassero era concreto; solo col tempo mi sono convinto che ce l´avrei fatta. Mia moglie l’ho conosciuta in carcere, per corrispondenza. Mi sono sposato poco dopo essere uscito di galera, è stata una scelta. Rientrare nella legalità, avere un´altra vita. Il matrimonio, un figlio, il lavoro, la normalità: era quello che cercavo. Mia moglie ha sempre saputo chi io fossi. Roberto non era responsabile di nulla, fu un fulmine a ciel sereno. Mi aspettavo che l´avrebbero fatta pagare a me. Ma io sarei stato in grado di difendermi. Sono stato, semplicemente, tra la gente. Avevo la mia vita, gli amici, la maggior parte dei quali ignorava la mia vera identità. Negli anni ho cambiato lavoro un paio di volte, e anche città. Ma non per sfuggire a qualcosa, solo perché avevo trovato un posto migliore, più remunerativo. I primi tempi sono stati difficili, adesso lavoriamo in due e va molto meglio. Mio figlio ha ventiquattro anni e adesso vive praticamente da solo. Non gli avevamo detto nulla su di me, l´ha scoperto da ragazzino quando vide una mia foto su un giornale. Alla fine ammisi di essere io quello e, insieme a mia moglie, piano piano gli abbiamo raccontato tutto. Non gli ho mai chiesto di mantenere il segreto sulla mia vera identità, ma lui lo ha fatto automaticamente e se ne è assunto la responsabilità. Ha capito la buona fede del padre. Del resto non ho mai avuto una scorta, se non quando mi dovevo presentare in posti ufficiali, dove si sapeva che sarei andato. Sembra incredibile, ma, in questi venticinque anni, ho fatto sempre la stessa vita, mimetizzato in mezzo alla gente. È il modo migliore per sparire. Certo, problemi ce ne sono stati e tanti. Soprattutto quelli legati all´identità, a cominciare dal libretto della mutua. Mio fratello era anche un amico, la persona sulla quale avrei potuto fare affidamento, appena uscito dal carcere. Con lui avrei potuto risolvere tante cose, consigliarmi. In me è scattato un tale odio per i responsabili. Un odio che è rimasto uguale da allora e che mi porto sempre dentro, anche se non guardo i giornali che ne parlano, anche se, quando mi capita di incrociare una qualche trasmissione tv, subito spengo. Dubbi all´inizio ne avevo tanti, e anche sofferenza, già prima di essere arrestato. Non ero più convinto di quello che avevo fatto e, dopo Moro non sapevamo più come andare avanti. Quella non era la mia crisi, era quella di tutte le Brigate rosse. Lo so, io sono stato il primo, ma se la mia scelta fosse rimasta singola, isolata, non si sarebbe creato il fenomeno della dissociazione. E quindi le bierre non si sarebbero disintegrate. La mia dissociazione fu un po´ quella di tutti. Non fu lo Stato a distruggere le Brigate rosse, siamo noi che ci siamo autodistrutti. La nostra strategia non era giusta, non lo era la violenza in Italia, in quelle condizioni. Non lo era aver provocato tanti danni, morte e dolore. Beh, glielo dico, all´epoca sono tornato perfino a San Benedetto qualche volta, la città dove ho vissuto, la mia città. Fu qualche anno dopo; sono stato a trovare mia madre, i miei parenti. E ho anche dormito in casa di mia madre. E senza i miei amici carabinieri che qualche volta lasciavano correre, altrimenti non campavo più. La mattina andavo al mare e una volta il padrone dello chalet mi ha perfino riconosciuto, abbiamo pranzato insieme. Ci pensi, se fosse venuto fuori: Peci sta al mare a San Benedetto, ci avrebbe forse creduto qualcuno? È tutto lì il bluff» (Intervista rilasciata a Silvana Mazzocchi)

“IO, L’INFAME” (Sperling & Kupfer Editori Spa)

Patrizio Peci è morto il 18 maggio 1983. Patrizio Peci ero io. Il 18 maggio 1983, a Torino, l´uomo conosciuto con il nome di Patrizio Peci entrava in un´aula del tribunale di Torino per testimoniare contro i suoi ex compagni, principale teste d´accusa nel processo contro le Brigate rosse. Fino a quel giorno ero stato un brigatista, dopo di allora divenni il più feroce nemico dei brigatisti, l´uomo che aveva reso possibile lo smantellamento della più importante organizzazione armata degli anni di piombo. Peci “l´infame”, perché aveva tradito il codice di omertà che lega tra di loro gli ex terroristi, spesso anche dopo la cattura.

Peci “l´infame”, perché aveva vuotato il sacco, chiuso ogni margine di ambiguità possibile, perché si era bruciato i ponti dietro le spalle; infame perché aveva fatto i nomi, perché aveva collaborato con il generale, perché aveva scelto quegli stessi carabinieri che gli avevano dato la caccia. Infame perché era passato dalla parte dei suoi ex nemici, che adesso erano destinati a diventare i suoi unici compagni di vita. Peci, l´ex combattente convinto che la guerra sia finita.

«Perché non ti fai una plastica?». Se dovevo restare in questo paese, bisognava immaginare come. Se non dovevo trasferirmi all´estero, era indispensabile trovare un modo per vivere in Italia. Ci pensai a lungo e giunsi a un´unica conclusione. La sola cosa della vita di Patrizio Peci che poteva servire anche alla vita del nuovo Patrizio era quello che Peci sapeva fare meglio. Ovvero vivere nelle città, dissimularsi tra mille esistenze anonime, vivere da clandestino. Sfuggire alla condanna a morte delle Brigate rosse con gli stessi strumenti appresi alla scuola delle Brigate rosse.

L´ultima scelta, se possibile, fu ancora più importante. Vivere con la mia faccia di sempre, l´unica che conoscevo. Quella a cui ero affezionato. Uno a cui capita di morire, una volta nella vita, può cambiare tutto. Tutto, ma non l´immagine che guarda la mattina quando si ritrova davanti allo specchio. Era un azzardo, mi dicevano. Ma sentivo che potevo farlo. Ero convinto di aver imparato una regola, nel periodo della mia prima latitanza.

Un giorno, al mare, mi ero ritrovato in spiaggia. Ero bardato, senza baffi, apparentemente irriconoscibile rispetto all´identikit diffuso dai giornali. Mi capitò di incrociare lo sguardo di un amico di infanzia, dietro un ombrellone, di esserne come attraversato, di avere la certezza matematica di essere stato riconosciuto.

Quel giorno mi ero convinto che se qualcuno ti riconosce non è per la forma del naso, o per il modo in cui la mascella si appoggia sul tuo collo, o per il taglio delle sopracciglia. Se uno ti riconosce, quando sei latitante, è perché ti sa guardare negli occhi. Ma siccome gli occhi sono quelli, e nessuno te li può cambiare, decisi che già che c´ero avrei corso il rischio, che avrei tenuto anche la mia faccia. Il primo anno fu durissimo. Il secondo migliore. Dal terzo iniziai a pensare che ce l´avrei potuta fare. Scegliere di fare un bambino, insieme, fu la traduzione di questa certezza acquisita, fu il passo di non ritorno nella normalità. Il ritorno alle responsabilità era un altro passo che mi separava dalla mia vita precedente. Essere responsabile di una vita è la cosa che più ti allontana da un´esistenza in cui le vite non contano.

Oggi mio figlio ha ventiquattro anni, e un segreto. Non è stato sempre così. Non gli avevamo detto tutto, quindi per molti anni anche lui ha coltivato il dubbio. Quando era piccolo non si faceva troppe domande. Non ci chiedeva chi fossero gli “amici” con la pistola che spesso ci venivano a fare visita, non mi faceva domande sullo “zio Creso” e sullo “zio Picciotto”, i due carabinieri che dopo avermi dato la caccia erano diventati i miei migliori amici. Quello era il suo mondo, la sua famiglia, la normalità, i volti delle persone che conosceva da sempre.

Certo, come una premonizione, c´era la sua passione per gli anni di piombo, per i programmi di Giovanni Minoli e per gli articoli dei giornali. Non ci eravamo dati regole perentorie, io e mia moglie, se non questa: quando lui faceva domande, noi rispondevamo sempre.

La verità iniziò a farsi largo a poco a poco, per gradi, come se si fosse trattato di un destino ineluttabile, di una necessità. Un giorno, improvvisamente, ogni filtro cadde.

Mio figlio mi venne incontro con in mano una copia di un giornale, credo La Stampa. Non ebbi bisogno di leggere per sapere di cosa si trattasse. C´era un articolo su Peci e una foto dei tempi del processo. Era una vecchia immagine in bianco e nero, per giunta un po´ sgranata, dove apparivo molto diverso da come ero in quei giorni. Ma se la regola dello sguardo ha un senso per chi ti ha conosciuto bene, figuratevi se uno sguardo può mantenere un segreto di fronte a un figlio.

Disse semplicemente: «Papà, questo sei tu».

Io provai a scherzarci su, e risposi ridendo: «Sì, figurati, sono il terrorista Peci». Lui continuò, senza farsi scoraggiare dalla mia battuta: «Papà, Peci sei tu, io lo so».

Mi sono accorto solo per caso che io sono l´unico. L´unico che negli anni di piombo abbia abitato entrambi i gironi dei dannati: sia fra le vittime sia fra i carnefici, sia fra chi ha amministrato la morte sia fra chi ha conosciuto la morte, quella di una delle persone più care, quella che ti fa conoscere il senso della perdita irrevocabile. Sono l´unico, e non è certo un privilegio. È come se queste due parti della mia storia e della mia personalità si inseguissero in tondo dentro di me, in un moto perpetuo, e non si incontrassero mai. Come se aver impugnato una pistola per sparare mi rendesse ancora più difficile, e non più facile, capire le ragioni di chi ha sparato.

Ogni volta che penso a mio fratello, e a quello che gli hanno fatto, alla squallida messa in scena allestita a beneficio dei giornali, alla foto dell´esecuzione scattata come se si trattasse di un film, al canto di Bandiera rossa mandato in onda mentre gli leggono la sentenza di morte, sento ribollire il sangue nelle vene per l´ira. Anni fa, come ho già raccontato, credevo che avrei trascorso quello che mi restava da vivere a inseguirli con la pistola in mano. Oggi che l´idea della vendetta è passata come una febbre tropicale dentro di me, sento solo un grande vuoto: il senso della perdita e dell´assenza. Non potrò perdonare mai. Mai. Perché non si può perdonare quello che non ha senso.

E forse è per questo che i parenti delle vittime non riescono a spiegare mai, a chi non lo ha conosciuto, il senso del lutto. Non puoi perdonare la perdita irrevocabile, soprattutto quando sai che non c´era motivo, soltanto odio e ferocia animalesca in chi ha premuto il grilletto. Ancora oggi, di questi brigatisti del presunto Fronte delle carceri, quelli che realizzarono il sequestro, penso un´unica cosa: che sono delle bestie.

Oggi, a distanza di tanti anni, non so dire se davvero sono io quello che ha smantellato le Brigate rosse. Non sono un presuntuoso, non mi interessa appuntarmi medaglie sul petto, non è nel mio carattere. Ma di una cosa sono sicuro: io ho anticipato, con la mia scelta, qualcosa che doveva accadere. Sono stato lo strumento che ha reso possibile qualcosa che era già nella storia.

Oggi, dopo che è passato un quarto di secolo, e che il tempo ha misurato il peso delle scelte, penso semplicemente questo: non ho rimpianti, non ho rimorsi. Sono felice di avere fatto quello che ho fatto, perché era giusto farlo.

Le Brigate Rosse sequestrano il Sostituto Procuratore Mario Sossi

!B)oWoJwEWk~$(KGrHqJ,!hQEw5Gw4!ezBMOYyoOQ8w~~_35Mario Sossi nasce a Imperia il 6 febbraio 1932. Magistrato, Pubblico Ministero nel processo al Gruppo XXII Ottobre, fu sequestrato dalle Brigate Rosse a Genova il 18 aprile 1974 e rilasciato a Milano il 23 maggio 1974.

Chiamato alle armi nel 1953, presta servizio nel corpo militare degli alpini a cui resterà sempre legatissimo. Durante l’università milita nella FUAN, un’associazione studentesca missina. Entra in magistratura nel 1957 e si associa all’UMI, l’associazione dei magistrati politicamente più a destra, da cui comunque si dissocerà in seguito per il mancato dell’associazione durante il suo sequestro. Divenne famoso per l’arresto di alcuni edicolanti che avevano esposto al pubblico riviste pornografiche.

Al momento del rapimento ad opera delle Brigate Rosse sosteneva l’accusa contro gruppi terroristici. Le Br lo sequestrarono la sera del 18 aprile 1974, al suo rientro a casa in Via Forte San Giuliano a Genova, appena sceso dall’autobus della linea 42. Sossi fu caricato su un’Autobianchi A112 guidata da Alberto Franceschini, seguito da Mara Cagol su una Fiat 128. Superato un posto di blocco, per un equivoco, Franceschini sparò una raffica di mitra contro l’auto guidata da Mara Cagol, che rimase illesa. Sossi fu sottoposto ad interrogatorio da Alberto Franceschini, coadiuvato da Pietro Bertolazzi.

Il rapimento fu gestito dallo stesso Franceschini, Mara Cagol e Piero Bertolazzi; Sossi fu sottoposto ad un processo proletario, al termine del quale i brigatisti chiesero per la sua liberazione, come contropartita, la liberazione dei terroristi del Gruppo XXII Ottobre e il loro trasporto in un paese amico.

Sossi venne liberato a Milano il 23 maggio 1974; non cercò di avvisare nessuno, tornò solitario a Genova in treno e infine si presentò alla Guardia di Finanza (e non presso le altre armi, pensando di poter essere oggetto di trattamenti “incongrui”).

Il rapimento di Mario Sossi costituì uno dei primi salti di qualità nell’azione di lotta delle Brigate Rosse, ben diverso dal solito “mordi e fuggi” per il quale erano ormai note.

A liberazione avvenuta il procuratore della Repubblica di Genova Francesco Coco verrà assassinato a Genova dalle Br l’8 giugno 1976, insieme a due uomini della scorta, come “rappresaglia” perché si era rifiutato di acconsentire alla scarcerazione di alcuni terroristi in cambio di Sossi.

Sulle vicende di quel rapimento lo stesso Mario Sossi scrisse un libro intitolato Nella prigione delle BR.